La rivoluzione deve iniziare dagli uomini

Come è arcinoto siamo dei campioni mondiali dell’osservare ogni minima piega di ogni singola falange, analizzare minutamente le cuticole, il letto ungueale e le condizioni generali dell’indice, mentre questo sta puntando sulla luna.
Dunque se è vero che Elisabetta Franchi, l’imprenditrice della moda sulla quale si polemizza da 48 ore, ha detto alcune cose ampiamente discutibili (“assumo solo donne negli anta perché hanno già fatto quattro giri di boa”) e altre che ci riportano all’epoca delle capanne di fango (“perché comunque il camino in casa lo accendiamo noi donne”), non possiamo evitare di riconoscere che sulla parte relativa al lavoro ha delle ragioni.
Un imprenditore può permettersi di formare una dirigente e vederla sparire per due anni causa maternità? Ovviamente no. È uno spreco di risorse, di formazione, di investimenti nella persona.
Ci sono idee per risolvere il problema? Di pratiche ne possiamo elencare quante ne volete. La classica, quella che fa fare sempre bella figura in qualsiasi conversazione è lamentarsi dei servizi che mancano. Ma Franchi ha il quartier generale a Bologna, in quell’Emilia Romagna che ha un tasso di copertura di asili nido superiore alla Germania.
Con una riflessione più raffinata e più centrata - sempre per far conversazione, ma con maggiore sostanza - potremmo dire che ci sono aziende, soprattutto grandi, soprattutto multinazionali, che hanno dei programmi di gestione delle persone che decidono di avere un figlio: funzionano, sono felici loro, non perdono un passo di carriera e sono soddisfatti i datori di lavoro.
Nelle aziende più piccole, però, è più difficile. Esaminato attentamente il dito, vista la direzione, preso atto che c’è un enorme corpo celeste, possiamo finalmente dargli un nome: fattore culturale. Non possiamo nasconderci che le donne che rinunciano al lavoro e alla carriera per dedicarsi a quello di cura (figli o genitori anziani che siano) sono centinaia di migliaia e spesso lo fanno non solo perché le loro aziende sono brutte e cattive, ma perché in casa si trovano un partner che non riesce a staccarsi dal suo ruolo di bread winner, colui che esce dalla caverna con la clava e abbatte la preda.
Perché devi lavorare se ci sono io che lo faccio? In fondo chi è che allatta? In fondo chi è che partorisce? Perché devi guadagnare più di me? Quasi nessun maschio che si professi moderno si riconoscerà in queste domande, perché certamente non le ha poste in questo modo. Ha dato a intendere, ha lasciato che gli eventi seguissero il loro corso, ha scelto consciamente o inconsciamente di far sì che le cose scorressero senza che lui cedesse millimetri o solo quelli che bastano a non darle l’impressione che lui era e resta un pater familias.
E lei, usiamo volutamente una parola forte, rimane sottomessa. Quanti uomini hanno il coraggio di lasciare il lavoro per consentire alla propria compagna di realizzarsi professionalmente? Quanti sono disposti ad accettare quello che un pezzo importante della società considera una diminutio? E quante donne sono disposte a imporsi fino ad arrivare a un conflitto con la persona che hanno scelto per condividere la vita o un pezzo di strada?
Lo Stato deve fare il suo, le aziende altrettanto, ma la rivoluzione deve iniziare dagli uomini.