Diritti

Il #MeToo della vela

Dopo la denuncia di discriminazioni nel 2019, il mondo della vela fa passi avanti: crescono le skipper e anche la Coppa America dal 2024 avrà circuiti femminili. E pensare che nella storia le donne a bordo…
Credit: https://worldsailingtrust.org
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17 maggio 2022 Aggiornato alle 15:00

La parità di genere è un obiettivo ambizioso, anche nello sport, compresa la disciplina della vela.

Nel 2019 lo studio Women in Sailing, redatto da World Sailing Trust, rilevava atti di discriminazione ai danni delle atlete che, secondo i casi, si traducevano in isolamento, bassa considerazione in termini di competenze, riduzione delle opportunità, compensi ridotti per le professioniste, carenza di supporto e molestie.

Alla luce di tutto ciò la Federazione internazionale della vela prese una posizione netta dichiarando di voler operare con la massima solerzia per intervenire sia sul piano della comunicazione, che su quello normativo con la modifica di alcuni regolamenti obsoleti che risultavano discriminatori. Come l’obbligo di posizionare sulle vele un vistoso logo a forma di diamante rosso che negli eventi aperti a entrambi i sessi, distingueva l’equipaggio femminile da quello maschile.

E passi avanti in effetti sono stati compiuti: è in costante crescita il numero di skipper donna che partecipano ai grandi eventi sportivi internazionali e alle Olimpiadi di Parigi del 2024 dovrebbe essere finalmente raggiunta la parità di genere tra gli atleti.

Anche in Coppa America, dove la quota rosa è attualmente pari a zero, è stato redatto un nuovo regolamento che a partire dall’edizione del 2024 vedrà organizzati circuiti femminili.

Insomma, pur permanendo forti criticità, il vento dell’emancipazione sembra essersi finalmente insinuato anche tra le vele, specchio di un mondo che ogni tanto dimostra di poter cambiare in meglio.

Ma prima ancora che la disuguaglianza di genere fosse percepita come una discriminazione, è singolare rilevare come alcune donne trovarono proprio a bordo dei grandi velieri l’opportunità di liberarsi dal giogo di una società opprimente e marcatamente maschilista.

Tra il 1700 e il 1800 era prassi comune in Marina che le mogli seguissero i naviganti nelle loro traversate oceaniche. Pur vivendo il disagio di un soggiorno in cui la privacy era un ricordo lontano e l’acqua dolce era centellinata al punto che si dovevano lavare i panni in mare, a bordo le spose dei comandanti venivano trattate con riguardo.

Membri di una comunità galleggiante con i suoi riti e le sue regole, le famiglie dei marittimi avevano poi anche modo di socializzare tra loro e di dimorare, durante i periodi di carenaggio, in località idilliache come Honolulu, alle Hawaii, che nel 1800 divenne il principale crocevia delle navi baleniere.

L’avventura, la possibilità concreta di scoprire luoghi e popoli e di vivere il mondo oltre il chiuso del focolare domestico, si trasformò per molte signore in uno strumento di riscatto culturale.

Ovviamente c’erano donne e donne. Un conto era essere la moglie del comandante o di un ufficiale e auspicare a una vita di bordo tutto sommato dignitosa, un altro era essere la compagna dell’artigliere, del carpentiere o del velaio ed essere costretta a razioni di cibo ridotte e a condividere l’amaca col proprio uomo in un ambiente affollato come poteva essere il castello di prua. Per non parlare poi delle prostitute che talvolta venivano imbarcate col solo scopo di soddisfare i più biechi istinti dei loro clienti.

In ogni caso, gli orizzonti indefiniti e la prospettiva di un’alternativa concreta alla vita domestica o, peggio, alla povertà, alimentò in alcune donne l’ambizione di diventare marinaio travestendosi da uomo. Un inganno per certi aspetti mortificante, ma che poteva offrire loro una libertà a cui mai avrebbero potuto ambire sulla terraferma. A partire dalla certezza di un trattamento equanime e di una paga sicura, miraggi in un’epoca in cui la discriminazione tra i sessi era legge e il denaro era gestito esclusivamente dai padri di famiglia.

Sono diversi i casi documentati di donne che con questo escamotage riuscirono a entrare in Marina. Nel 1815 per esempio balzò alle cronache la storia di una donna africana scoperta dopo aver servito con merito e per undici anni nella Royal Navy sotto il nome di William Brown. Altrettanto clamore destò nel 1862 Sara Rosetta Wakemam di New York, che prima di arruolarsi nella Union Army per prendere parte alla Guerra civile, aveva lavorato come barcaiolo col nome di Lyons Wakemam.

Singolare anche la scelta dell’inglese Mary Lacy che, fuggita di casa a 19 anni nei panni di William Chandler, operò nella Marina britannica dal 1759 al 1771 fino a conseguire il titolo di carpentiere qualificato. Ancora in Inghilterra Rebecca Johnson lavorò in mare sotto mentite spoglie per 7 anni, seguendo le orme della madre che col medesimo stratagemma aveva servito in Marina come artigliere. Georgianna Leonard infine divenne celebre per essersi imbarcata nel 1862 fingendosi il veterano George Wheldon. Il suo segreto fu scoperto dopo che ebbe attaccato con un coltello un secondo ufficiale e, condannata alla flagellazione, le fu ordinato di togliersi la camicia.

Se questi e altri casi sono venuti alla luce è lecito immaginare che molti altri siano rimasti celati. Nel camuffamento aiutava una corporatura forte e atletica tale da eseguire senza battere ciglio i compiti che venivano abitualmente assegnati ai marinai. Certamente non guastava un atteggiamento rude e saper masticare tabacco. Ma in un’epoca in cui l’abito faceva il monaco molto più di quanto accada oggi, indossare i pantaloni era già un lasciapassare per non destare sospetti.

In ogni caso, quel che a nostro avviso faceva la differenza in queste donne era la consapevolezza che la libertà, che loro videro nel mare, è un diritto inviolabile per cui vale la pena di lottare a prescindere dalle convenzioni e dalle differenze di genere. 

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