Futuro

Dagli impatti sociali agli impatti antropologici

Per ricucire lo strappo tra evoluzione tecnologica e umanesimo serve un nuovo contratto sociale. Che metta al centro il genere umano
Credit: Ben Sweet
Tempo di lettura 6 min lettura
8 maggio 2022 Aggiornato alle 06:30

Viviamo un’epoca di grandi cambiamenti.

O meglio ancora, come ci ricorda spesso Papa Francesco, un cambiamento d’epoca.

Un tempo di grandi discontinuità paradigmatiche e di slittamenti differenziali che portano in dote caratteristiche e qualità inedite e senza precedenti.

Viviamo quella che Azeem Azhar definisce “era esponenziale”, e altri ancora: Digital Age, Infosfera, Antropocene, Super Smart Society 5.0.

Tecnologie come l’intelligenza artificiale, la blockchain, l’internet delle cose, la realtà aumentata, la robotica, le scienze della vita, unitamente a una esplosiva crescita della capacità computazionale, stanno alimentando, un’evoluzione senza precedenti “per intensità, profondità, velocità e portata” dei mutamenti in corso.

Siamo proiettati - per alcuni versi inconsapevolmente - al centro di una ormai inequivocabile “singolarità”.

Quasi un parossismo evolutivo che non permette di essere letto con nitidezza dall’interno del suo manifestarsi.

Tutto questo coincide con l’esaurirsi del preesistente modello culturale e operativo che ha caratterizzato ogni consolidato processo di interpretazione e implementazione della realtà.

Nel contempo, siamo quotidianamente chiamati a confrontarci con il contestuale e dinamico avvento di nuove ontologie e morfologie di futuro.

Uno sforzo ineludibile per tentare di ricucire lo strappo che si è determinato tra evoluzione tecnologica e umanesimo.

Per dirla con Eric Hoffer, giorno dopo giorno ci riscopriamo perfettamente preparati a gestire un mondo che non esiste più.

Si avverte il bisogno di un nuovo contratto sociale.

Siamo la società che assisterà all’inevitabile tracollo di una civiltà costruita sulla catena del valore della produzione analogica, dei combustibili fossili e del monetarismo classico.

La pandemia ha ulteriormente accelerato e reso distruptive questa tendenza già in essere da molti anni.

In questo contesto, sono diverse le policy che, su scala planetaria e in maniera convergente, stanno definendo percorsi finalizzati a gestire le grandi transizioni della nostra epoca in un orizzonte temporale multi-generazionale.

Un po’ come avveniva nel Medioevo, quando i grandi costruttori lavoravano una vita intera su oggetti che non avrebbero mai visto finiti, così queste policy si sforzano di riproporre un analogo cathedral thinking.

Essere buoni antenati e preservare il pater munus è l’obiettivo che ci siamo dati.

“Innovazione” e “sostenibilità” sono le parole d’ordine che, ormai da anni, ispirano, animano e guidano quest’impegno finalizzato a produrre impatti sociali misurabili e duraturi.

Tuttavia, si corre un rischio elevato (e ne esistono le prove): che questi sforzi, autentici e generosi, possano “partorire vento” o che, peggio ancora, diventino “para-vento” di abili operazioni di trasformismo (washing) culturale, sociale, ambientale ed economico.

Per scongiurare questa dinamica, è necessario recuperare ciò che oggi è ostentatamente assente, sia nel dibattito corrente che nelle intenzioni che lo promuovono: un solido e robusto ancoraggio antropologico o, meglio ancora, antropocentrico.

Urge un salto di scala nella natura degli obiettivi che l’umanità intende perseguire e, nel contempo, degli strumenti e del metodo con cui essa si ripropone di implementarli.

È l’uomo la misura delle cose”, ci ricorda Protagora.

Si tratta di una affermazione morale e non già relativista (come alcune interpretazioni si sono sforzate di dimostrare).

Solo ponendo la persona umana all’origine e al centro di ogni policy sarà possibile conquistare la “misura” di ciò che è bene e di ciò che è male per la “società”, sanando la profonda frattura tra “verità dell’essere” e “verità del fine” che ne mina costantemente ogni equilibrio.

Solo ponendo la persona umana a fondamento di ogni pensiero e di ogni azione si potrà portare a sintesi e armonizzare la crescente antinomia tra diritti individuali e diritti sociali

La persona umana, con la sua centralità, è uno dei concetti più rivoluzionari (ma al tempo stesso più trascurati) della storia: fissato da Boezio e Tommaso, indagato e complicato da moltissimi altri pensatori, reso contemporaneo da Maritain.

L’essere umano è nel contempo “individuo” e “persona”.

L’”individualità” lo fa esistere storicamente.

Ma è il suo essere “persona” che lo apre, lo introduce e lo inserisce in un “mistero” ancora più profondo in cui il bisogno strutturale di autenticità, felicità e giustizia trova sincero appagamento.

Dobbiamo prendere definitivamente atto che non è possibile risolvere sul piano storico-sociale problemi e questioni di natura antropologica: le scienze sociali hanno costitutivamente bisogno di un orientamento capace di illuminare efficacemente il diffuso “disagio di civiltà” che caratterizza i tempi moderni.

Così come bisogna avere il coraggio di non tacere che la stessa dimensione antropologica, a sua volta, ha necessità di un radicato fondamento ermeneutico di natura ontologica e finanche escatologica: lo stesso Bauman nel donarci la sua celebre definizione della “società liquida” ci ricorda altrettanto autorevolmente che è proprio nel progressivo dissolversi delle “grandi narrazioni” che si è smarrita la “solidità” di un pensiero alto e resistente.

Occorre, in definitiva, impegnarsi nella promozione di una visione sapiente della realtà, dunque.

Ri-donando “senso” all’agire individuale e collettivo che non possono più essere risolti in una desolante e riduttiva prospettiva incrementale e acquisitiva.

Quel “senso” che origina pienezza dell’esperienza umana.

Quel “senso” che, radicandosi nella realtà relazionale della “persona”, supera la solitudine improduttiva dell’”io” generando connessioni significative tra le Creature, il Creato e - per chi crede - il Creatore.

Quel “senso” che si fa custode e interprete dell’intelligenza, della razionalità e della sapienza interiore dell’Universo e della Storia.

La stessa enciclica Laudato si’, spesso presentata come un’enciclica eminentemente ambientalista, è, invece, una riflessione profondamente umanistico/sapienziale che trova il suo definitivo compimento nella successiva enciclica Fratelli tutti.

È utile, quindi, avanzare una proposta che potrà apparire ardita: riconoscere che il framework di impatto sociale e ambientale (tanto utile e necessario quanto abusato e banalizzato) non è, da solo, sufficiente a indirizzare e valutare la qualità e gli effetti delle policy di transizione per introdurre conseguentemente, a completamento dello stesso e andando oltre, anche il concetto di “impatto antropologico”.

Abbiamo urgenza di accogliere e modellizzare nuove metriche, sia in fase di progettazione che di valutazione, se vogliamo realmente e concretamente rendere efficace ogni moderna teoria del cambiamento.

Solo così si potrà attuare un’autentica transizione antropologica.

L’innovazione armonica promuove con convinzione questo punto di vista che si rivela sempre più necessario.

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