Ambiente

Sì o no al rewilding?

Rigenerare e riparare gli immensi impatti dell’uomo sulla natura: è questa la sfida del futuro. Ma in Italia non esiste un dibattito
Dieter Blei (85 anni) davanti a un blocco di tronchi tagliati di conifere in una foresta in Germania
Dieter Blei (85 anni) davanti a un blocco di tronchi tagliati di conifere in una foresta in Germania Credit: Andreas Arnold/DPA
Tempo di lettura 5 min lettura
6 maggio 2022 Aggiornato alle 06:30

L’ara di Spix (Cyanopsitta spixii) è un pappagallo noto al grande pubblico per il film animato, Rio.

Oggi i fratelli di Blu – così si chiamava l’ara protagonista del film Pixar – presenti in natura sono tutti estinti. Ne rimangono solo un centinaio in cattività, che vengono allegati per preservare la specie. Ne viene curata l’alimentazione, la salute, persino la riproduzione per garantire la prosecuzione della specie, tra speranza e accanimento.

Un lavoro costoso e impegnativo. Un destino comune a tantissime specie animali e anche di piante, che sopravvivono solo in zoo o in centri di ricerca, avulsi dal loro contesto naturale in quanto nati e cresciuti in ambienti “artificiali” creati dall’uomo. Per molti conservazionisti l’obiettivo è la reintroduzione in natura di queste specie, in aree rese di nuovo selvagge tramite parchi, leggi per la protezione o una gestione complessa e integrata della natura.

Aree che spesso devono essere liberate da supposte specie invasive che ne hanno causato la scomparsa, e che dunque devono essere cacciate ed eliminate anche con procedimenti sofisticatissimi, sterminando fino all’ultimo esemplare.

Recentemente il reinserimento delle specie, noto agli esperti come rewilding, si è concentrato sulla reintroduzione di mega-fauna, al vertice della catena alimentare, come aveva ben capito quasi cento anni fa Aldo Leopold, uno dei primi grandi conservazionisti americani. Lupi, orsi, ma anche bisonti, linci, cavalli selvaggi.

Un discorso che vale anche per gli alberi vengono piantati per riforestare aree antropizzate per renderle di nuovo naturali (qualsiasi cosa significhi dato che la geografia degli alberi è stata negli ultimi millenni fortemente influenzata dall’azione antropica), magari anche con schemi di carbon offsetting, ovvero della CO2 catturata dalle neo-foreste e venduta a imprese o persone per compensare le proprie emissioni di gas climalteranti, come fanno aziende come ZeroCO2.

Anche per il clima pensiamo di poter ingegnerizzare soluzioni, come la geoingegneria solare (o “gestione della radiazione solare”, in quello che dovrebbe essere un linguaggio meno spaventoso), ovvero spruzzare particelle che riflettono le radiazioni solari nell’atmosfera, quindi riducendo la capacità di catturare calore.

Ecco, questi sono tutti esempi di come ci affanniamo a gestire la natura, tra scienza ambientale e tecnologie genetiche o gestionali. Dall’antichità abbiamo addomesticato animali e imparato a seminare, tagliato alberi per il fuoco e per la sussistenza delle comunità e imparato a controllare l’acqua e domarne il corso.

Ora però la gestione della natura arriva per correggere gli errori che noi stessi umani abbiamo commesso, dal cambiamento climatico alla devastazione degli ecosistemi causata dalla nostra industria alimentare globale. Una visione tecno-positivista anteposta al conservazionismo naturalista, basato sulla totale neutralità di intervento, quasi una cieca fiducia nella divina provvidenza.

Su questa faglia si sono create fratture all’interno del mondo scientifico e ambientalista. Basta vedere le divisioni tra chi che crede che boschi e foreste vadano lasciati in pace e faranno da sé, e chi invece ritiene necessaria una gestione basata su solide basi scientifiche per mantenere vivi, sicuri e produttivi gli alberi.

Oppure tra chi in Africa vuole creare sempre più riserve naturali per la megafauna e chi denuncia gli impatti sulle popolazioni indigene della conservazione a ogni costo.

La domanda che emerge in ogni caso è la seguente: noi umani abbiamo il diritto di gestire ogni aspetto della natura, tenendo in vita animali, riforestando e gestendo boschi e foreste, eliminando specie invasive, modificando il clima modificato da noi stessi?

È arroganza voler pensare di salvare la barriera corallina a ogni costo, anche affondando navi sui fondali, oppure ingegnerizzare il clima secondo il nostro favore?

Un’opinione non vuole e non può dare certo risposta. Ma il punto è che non esiste in Italia una discussione su come dobbiamo gestire emergenze come specie in via d’estinzione, aree a rischio, rinserimento di specie (si veda l’isteria legata all’orso o al lupo), geoingegneria, gestione forestale, intervenendo direttamente.

Non parlo solo di come ridurre gli impatti, argomento che avremmo già dovuto aver concluso da tempo, ma di come rigenerare e riparare gli immensi impatti dall’uomo generati.

Rigenerazione è il tema chiave degli anni a venire: per questo è importante ragionarci sopra oggi. Deve arrivare all’attenzione del pubblico, come accade negli Stati Uniti. Come ha fatto la bravissima Elizabeth Kolbert nel bestseller Under a White Sky, che esamina con distacco tutte le soluzioni di intervento intraprese dall’uomo, dalla difesa a ogni costo delle aree costiere dei bayou della Louisiana dall’inevitabile innalzamento dei mari, fino alla riproduzione forzata dei ciprinodontidi nelle pozze d’acqua nel deserto del Mojave o alla geoingegneria climatica in Islanda.

Questo è un dibattito di alto livello, ma nel nostro Paese le università o il Ministero della Transizione Ecologica sembrano completamente avulse da queste tematiche. Serve tornarne a discutere, sui giornali specializzati, nelle università e nel dibattito tra esperti.

La speculazione intellettuale su queste tematiche non è un vezzo.

Leggi anche