Diritti

Migranti: l’odissea dei soccorsi in mare

Cosa deve fare una nave che ne incrocia un’altra in pericolo? Quali le procedure, le leggi, le violazioni che avvengono al largo del Mediterraneo? Ne parliamo con Nicola Stalla di Sos Mediterranee
Credit: Anthony Jean/SOS MEDITERRANEE
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2 maggio 2022 Aggiornato alle 15:00

Il soccorso non è un’opzione. Lo stabilisce la cosiddetta “legge del mare” che, al di là dei principi etici, trova espressione nelle convenzioni internazionali sul diritto marittimo (Unclos, Sar e Solas) e in Italia nel Codice della navigazione.

L’assistenza a una nave in pericolo, recita il nostro regolamento, “è obbligatoria” finché ciò non sottoponga a grave rischio la nave soccorritrice, il suo equipaggio e i suoi passeggeri. E il comandante che abbia notizia del pericolo corso da una nave “è tenuto ad accorrere per prestare assistenza” (articolo 489).

Quando la nave in pericolo è incapace di manovrare, poi, il comandante della nave soccorritrice è tenuto a tentarne il salvataggio e se ciò non è possibile a mettere in sicurezza le persone che si trovano a bordo (articolo 490).

Il supporto normativo, dunque, è rigoroso e incontestabile. Eppure è spesso non considerato quando oggetto delle operazioni di ricerca e soccorso (search and rescue) sono i migranti che, pur di fuggire da conflitti, torture e miseria, si espongono ai marosi, attraversando il Mare Nostrum con mezzi di fortuna.

Dal 2014 a oggi sono stati oltre 23.000 i casi accertati di persone che hanno perso la vita in Mediterraneo nel tentativo, quanto meno legittimo, di aspirare a una esistenza dignitosa. E chi si spende per andare loro in soccorso incontra, oggi più che in passato, difficoltà operative al limite del boicottaggio.

Ne abbiamo parlato con Nicola Stalla, coordinatore delle operazioni “Search and Rescue” di SOS Mediterranee, associazione umanitaria costituita a Berlino nel 2015, che il grande pubblico probabilmente ricorderà per il teatrino politico che si scatenò nel 2018, quando fu negato lo sbarco in Italia alla loro prima nave Aquarius, carica di 629 naufraghi.

Recentemente hanno poi fatto discutere i ripetuti fermi amministrativi che per cavilli burocratici, hanno costretto in porto la loro seconda nave, la Ocean Viking, impedendole di operare per sette mesi.

Malgrado ciò dal 2016, l’Ong che raggruppa attivisti italiani, tedeschi, francesi e svizzeri, ha tratto in salvo circa 31.000 persone; in media 430 al mese.

Le operazioni di soccorso prima del 2018

«Per avere un quadro chiaro della situazione attuale – premette Nicola Stalla – bisogna comprendere quel che accadeva prima del 27 giugno 2018, data in cui è stata dichiarata dal governo di Tripoli la zona Sar libica fino a quel momento sospesa per la mancanza dei requisiti richiesti dalle Convenzioni internazionali».

La Sar è un’area di mare (quella italiana si estende poco più a Sud di Lampedusa) in cui ciascun Paese coordina il soccorso attraverso i relativi Maritime Rescue Coordination Centre (Mrcc), strutture operative che fanno parte di un sistema internazionale, istituito con la Convenzione di Amburgo del 1979 (a cui il nostro Paese ha aderito con la Legge 147 del 3 aprile 1989).

«Precedentemente all’istituzione della Sar libica – spiega Stalla – le operazioni di soccorso venivano coordinate dal Maritime Rescue Coordination Centre (Mrcc) di Roma che, disponendo di tutti gli strumenti per monitorare il traffico marittimo, diramava l’allerta. In mare c’era un ragguardevole dispiegamento di forze: navi delle associazioni umanitarie, della Guardia Costiera italiana, della Marina Militare, di altre marine europee, nonché i mezzi di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che poteva contare anche su droni e aeromobili».

Oltre a dirigere le operazioni di salvataggio il nostro Maritime Rescue Coordination Centre organizzava il trasferimento dei naufraghi da una unità all’altra, affinché questi fossero condotti a terra in sicurezza, lasciando il resto dei mezzi dispiegati in mare per altre eventuali operazioni di soccorso.

«Se eravamo direttamente noi a intercettare i naufraghi – aggiunge Stalla – ci facevamo carico del loro recupero, dandone contestualmente comunicazione all’Mrcc di Roma che si adoperava senza esitazione a fornire il supporto necessario».

Era l’Italia, insomma, a coordinare le operazioni in tutto il Mediterraneo centrale, fino al limite delle acque territoriali libiche. Ma con l’aumentare degli sbarchi nel nostro Paese e il polverone politico che ne seguì, l’Unione europea avviò una serie di iniziative per far approvare la zona di intervento “esclusivo”, la Sar libica appunto, e passare a loro la patata bollente.

Il bluff della Sar libica

Nel 2012 l’Italia era già stata condannata dalla Corte Europea per il cosiddetto caso Hirsi, che nel 2009 ebbe come protagoniste 24 persone rimpatriate in Libia da navi italiane, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani. Si trovò la scappatoia di formalizzare la zona Sar libica sotto la supervisione di un fantomatico Centro di coordinamento locale. Furono ritirati tutti i mezzi precedentemente dislocati nel Mediterraneo centrale e fornite alla Guardia Costiera Libica 12 motovedette.

«Per poter coordinare le operazioni di soccorso – sottolinea Stalla – un Paese dovrebbe quanto meno disporre dei cosiddetti place of safety, porti sicuri in cui le persone che vi sono condotte non sono più in pericolo di vita. Com’è noto, invece, dalla Libia i disperati continuano a fuggire, proprio perché lì place of safety non ce ne sono».

Anche il Maritime Rescue Coordination Centre di Tripoli è di fatto una struttura fantasma.

«Quando avvistiamo dei naufraghi in una situazione di pericolo nella Sar libica – racconta Stalla – procediamo al loro recupero. Come da protocollo, quindi, contattiamo via telefono satellitare il Centro di coordinamento responsabile, ovvero quello di Tripoli, ma nessuno risponde e se lo fa parla solo arabo e non è in grado di fornire alcun supporto alle operazioni».

In sostanza l’Mrcc libico si limita a coordinare le operazioni della locale Guardia Costiera impegnata a dare la caccia a coloro che tentano la fuga via mare per riportarli a terra, contro la loro volontà e in barba ai diritti umani.

Trovare i dispersi? Un rebus

Individuare i naufraghi che riescono a superare lo sbarramento libico è diventato estremamente complesso. Un rebus tra le coordinate. Le navi delle Ong navigano quasi alla cieca utilizzando radar e binocoli, o seguendo in cielo i movimenti dei velivoli di Frontex per fare rotta laddove si concentrano.

In uno scenario di incertezza come questo ha assunto un ruolo chiave Alarm Phone, una hot-line civile nata nel 2014 su iniziativa di una rete di attivisti che, contattata anche direttamente dai migranti, diffonde allerte su situazioni di emergenza ai Centri di coordinamento Sar, alle organizzazioni umanitarie, ai media, sulle piattaforme social e alle navi delle Ong dislocate in zona, affinché vengano portate a compimento le operazioni di soccorso.

Ma è ben altra cosa rispetto al passato. Oggi quando una nave individua un natante alla deriva deve contare esclusivamente sulle proprie forze e per di più confrontarsi col muro di gomma dei diversi Centri di coordinamento Sar.

«Noi della Ocean Viking – precisa Stalla – portiamo a bordo i naufraghi soccorsi e dopo il diniego del Centro di coordinamento libico e di quello di Malta, ci vediamo costretti a dirottare la richiesta su Roma che, al termine di immancabili dibattimenti e rimpalli di responsabilità che dilatano in maniera estenuante i tempi delle operazioni, fornisce finalmente indicazione di un porto di sbarco sicuro assegnato dal nostro Ministero dell’Interno».

Di fatto, insomma, la salvezza di migliaia di disperati è oggi minata da ostacoli burocratici e delegata all’intraprendenza di pochi che, privi di un coordinamento strutturato, non sempre riescono ad avere successo. Caso emblematico quello denunciato proprio da AlarmPhone il 21 aprile del 2021 quando circa 130 persone a bordo di un’imbarcazione, furono letteralmente abbandonate nel Mediterraneo centrale dagli aerei di Frontex che li avevano individuati, dalla Guardia costiera libica che interruppe le ricerche, dal mercantile Bruna che transitava a meno di 23 miglia e non intervenne e infine dalla Guardia Costiera italiana, che rifiutò il coordinamento delle operazioni di soccorso fino alla sera del 21 aprile, nonostante fosse stata informata del pericolo diverse ore prima.

Il giorno seguente, dopo aver navigato tutta la notte a massima velocità, la nave Ocean Viking raggiunse il punto del naufragio rinvenendo solo il relitto dell’imbarcazione e alcuni corpi ormai senza vita.

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