Economia

La ristorazione e quei giovani che non vogliono lavorare

La polemica di alcuni chef e ristoratori sulla difficoltà di reperire personale ha radici profonde. Che affondano nella crisi di un settore messo in ginocchio dalla pandemia. Nei sussidi statali sbilanciati. E nelle competenze che mancano
Clay Banks
Clay Banks

Se esiste un termine esatto per definire lo scenario che le imprese della ristorazione, dell’intrattenimento e del turismo in generale, stanno affrontando, crediamo che “tempesta perfetta” sia quello corretto.

Sembrerebbe quasi superfluo ricordare gli effetti catastrofici che l’introduzione delle restrizioni finalizzate al contenimento della pandemia ha avuto sul settore. Nel corso degli ultimi due anni la ristorazione ha infatti registrato perdite per oltre 56 miliardi di euro.

Il crollo più consistente è avvenuto nel corso del 2020, con il doppio lockdown di inizio e fine anno che ha generato una contrazione dei consumi pari a 33 miliardi di euro. Nel 2021, a seguito dell’allentamento delle misure restrittive sul finire del primo semestre, si è registrato un trend di ripartenza della domanda che, tuttavia, è rimasta al di sotto dei livelli del 2019 di circa 26 punti percentuali quantificabili in più di 23 miliardi di euro.

La priorità è stata la mera sopravvivenza, ricorrendo a tutti gli strumenti utili per garantire una continuità aziendale. È indicativo come la capacità di far fronte ai fabbisogni finanziari è peggiorata nel corso del 2021 per oltre il 40% delle imprese del settore, con un inevitabile aumento degli oneri finanziari conseguenti.

Su 300.000 imprese operative nel settore della ristorazione, nel biennio 2020-21 oltre 40.000 aziende hanno chiuso definitivamente, mentre le rimanenti hanno nella stragrande maggioranza dovuto aumentare i livelli di indebitamento, ricorrendo a tutte le possibili misure messe in campo, anche dalla decretazione di urgenza.

A questa situazione di maggiore fragilità del sistema, si aggiungono le notizie di questi giorni: instabilità geopolitica, per la devastante crisi Ucraina e la conseguente diminuzione del clima di fiducia dei consumatori. La crescente tensione inflattiva, sia sul mercato energetico che in quello delle materie prime, con aumenti anche nell’ordine del 150% dei costi per gas ed energia elettrica e le difficoltà crescenti nel reperimento di alcune materie prime.

In questo quadro di enorme difficoltà, inedita e per molti versi imprevedibile, si aggiunge l’ultimo tassello proprio in queste settimane, in cui a fronte di un’attesa ripresa delle attività per la fine delle restrizioni, si registra una generalizzata criticità nel reperire personale disponibile a lavorare nel comparto della ristorazione e del turismo.

Prima di esaminare i motivi che sono alla base di questa difficoltà del settore a recuperare competenze professionali dal mercato, crediamo sia utile ripercorrere l’impatto di questo “Tsunami economico” sul mercato del lavoro del comparto.

Le imprese della ristorazione hanno perso nel 2020 oltre 243.000 unità che sono state solo in minima parte recuperate nel corso del 2021.

Ad inizio del nuovo anno il numero dei lavoratori dipendenti impiegati nel settore risultava ancora inferiore di 194.000 unità rispetto ai livelli del 2019.

Sulla base di uno studio predisposto dalla Federazione dei Pubblici Esercizi, il 28% delle imprese ha dichiarato di aver perso alcuni dei propri collaboratori e, in particolare, il 21,5% di queste che ha perso collaboratori formati da tempo e «di esperienza».

Sempre secondo lo stesso studio, il 34% delle imprese ha dichiarato a inizio 2022 di avere un numero di addetti inferiore al 2019. Si tratta quindi di un esodo di competenze senza precedenti, in cui circa 1 lavoratore su 5 è uscito dal comparto, e oggi si fa enormemente fatica a recuperare i livelli di occupazione pre-pandemia. Questo con tassi di disoccupazione, soprattutto nel mondo giovanile e femminile particolarmente alti. È certamente un paradosso e riteniamo che a generare un quadro così critico, siano necessariamente una combinazione senza precedenti di fattori. Vediamone alcuni:

1. Incertezza e non essenzialità

Il settore della ristorazione ha subito lunghissimi mesi di inattività nel corso dei due anni pandemici. Prima è stato classificato come settore non essenziale e quindi chiuso, poi è stato aperto, chiuso, riaperto innumerevoli volte nel triste periodo dei colori regionali. È evidente che questa insicurezza non ha certamente giovato nell’identificare questo comparto come un settore dove puntare per crescere e stabilire un percorso professionale.

2. Nuovo rapporto vita lavorativa vs vita personale

Questo è un fenomeno certamente globale. I periodi di chiusura hanno probabilmente evidenziato quanto sia alta la “passione” richiesta per lavorare quando il resto del mondo è in vacanza o a divertirsi. Lavorare in questo comparto significa sacrificare feste comandate e giorni festivi e oggi, soprattutto le generazioni più giovani sembrano meno disponibili a sacrificarli in cambio della ricerca di una maggiore qualità di vita.

3. Sussidi e politiche del lavoro

La pandemia ha probabilmente solo acuito una serie di difficoltà strutturali del mercato del lavoro italiano. Pur agendo in modalità straordinaria con una cassa integrazione universale, estesa anche lavoratori che prima della crisi Covid 19 non ne avevano diritto, ha mostrato tutti i limiti di un sussidio particolarmente basso e spesso erogato con mesi di ritardo. Questo ha spinto molti lavoratori a ricercarsi un altro comparto anche solo per necessità di sopravvivenza.

Oggi inoltre emergono i limiti della totale mancanza di politiche attive del lavoro che si accompagnino ai sussidi previsti, come Naspi o reddito di cittadinanza, per trasformare gli stessi in un periodo transitorio e non in un incentivo a non fare. Da mesi registriamo richieste continue di personale che a fronte di offerte di lavoro, anche a tempo indeterminato e retribuite secondo quanto previsto dal CCNL del settore, richiede un inaccettabile inquadramento in nero per non perdere i diritti di sussidio acquisiti.

4. Lavori non lavoretti

È necessaria una generalizzata crescita delle competenze del settore. Questo tanto per i dipendenti quanto per gli stessi operatori. Gestire un bar o un ristorante, così come lavorare dentro i team, non possono più essere considerate professioni improvvisabili. Vano seriamente aggiornati i programmi delle scuole professionali che introducono i giovani in questo settore. Non vanno certamente disperse le competenze tecniche, ma serve implementare anche e soprattutto quelle manageriali, di gestione e sviluppo delle attività. Meno cuochi e più manager nel settore, in grado di farlo evolvere verso dimensioni più strutturate e meno fragili.

In conclusione, rispetto al comparto della ristorazione, riteniamo che la lezione principale che come Paese dobbiamo imparare da un’esperienza tragica come quella degli ultimi due anni, è la necessità di dotarsi di una visione politica settoriale. Un comparto cruciale per filiere determinanti come quella turistica e quella agroalimentare, non può essere lasciato in balia degli eventi, normato da un quadro legislativo di oltre 30 anni, senza alcuna forma di selezione all’entrata, dove chiunque può dar vita a un attività di ristorazione. Questo comparto rappresenta il motivo principale per il quale i turisti tornano in Italia, ha le potenzialità per essere ”l’oil and gas” italiano, aspetta solo di essere valorizzato come merita.

Roberto Calugi è Direttore Generale Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi, responsabile del personale della Federazione e sovrintende agli Uffici Federali

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