Culture

Stalingrado: la guerra di uno scrittore combattente

Censurato dall’Unione Sovietica e per la prima volta tradotto in italiano, Stalingrado del “combattente con la penna” Vasilij Grossman ci riporta alla Seconda Guerra Mondiale. A un incontro con la Storia che oggi drammaticamente riaffiora
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29 aprile 2022 Aggiornato alle 21:00

Il 29 aprile del 1942, in un tripudio di bandiere tedesche e italiane, alla stazione di Salisburgo arrivò il treno del dittatore dell’Italia fascista Benito Mussolini. Dopo la cerimonia di prammatica, Mussolini e i suoi accoliti si diressero al vecchio castello di Klessheim, antica residenza dei principi vescovi del luogo.

Lì, nei grandi saloni freddi riammobiliati di recente con arredi sottratti in Francia, si sarebbe tenuto l’ennesimo incontro fra Hitler e Mussolini, mentre Ribbentrop, Keitel, Jodl e altri collaboratori stretti del Führer si sarebbero confrontati con i ministri che avevano accompagnato il duce: Ciano, il generale Cavallero e Alfieri, l’ambasciatore italiano a Berlino”.

Inizia così la prima di oltre 800 pagine di Stalingrado, scritto negli ultimi anni del regime staliniano da Vasilij Grossman, nato a Berdychiv, in Ucraina, all’inizio del secolo scorso e morto a Mosca, in Russia, nel 1964.

Un libro dalla storia editoriale movimentata, appena pubblicato per la prima volta in italiano (edito da Adelphi e tradotto da Claudia Zonghetti) grazie a un attento esame dei dattiloscritti originali: nonostante sia stato composto tra il 1943 e il 1949, e parzialmente riscritto per superare il vaglio della censura sovietica, Stalingrado fu pubblicato a puntate sulla rivista Novyj Mir (Nuovo mondo in russo) dove apparve con il titolo “Per una giusta causa”.

La nuova, inedita edizione curata da Robert Chandlre e Jurij Bit-Junan, reintegra per la prima volta passi mai pubblicati in lingua russa. Che in qualche modo creano uno strano effetto prospettico e il rischio di confondere il lettore di Vita e Destino, scritto alla fine degli anni Cinquanta, dopo Stalingrado, ma pubblicato prima, nel 1980.

Stessi personaggi e una storia che continua per altre 800 pagine, o forse altre migliaia che non leggeremo mai, viste le riscritture obbligate di quegli anni.

Il 29 aprile del 1942, a Salisburgo, “i due sedicenti padroni dell’Europa”, come li definisce Grossman, stabiliscono che il colpo da infliggere alla Russia dev’essere “immane, tremendo e definitivo”. “Si incontravano ogni volta che Hitler predisponeva una nuova sciagura nella vita dei popoli – continua l’inizio di Stalingrado - Le loro conversazioni a quattr’occhi sulle Alpi al confine fra Austria e Italia portavano puntualmente a un’invasione, a manovre diversive di portata continentale e ad attacchi di fanteria motorizzata con relativo dispiegamento di milioni di uomini. I resoconti anemici che i giornali riservavano agli incontri fra i due dittatori contribuivano a riempire i cuori di un’attesa spasmodica”.

Non quelli di Grossman, definito un combattente con la penna per i suoi reportage dal fronte di Stalingrado, dove rimase fino al 1943, ispirati alla verità dei fatti: dopo essere stato rifiutato per fare il militare, Grossman riesce comunque a seguire la guerra scrivendo per il giornale militare Krasnaja Zvezda (letteralmente Stella Rossa), esperienza che lo cambierà fisicamente e psicologicamente – al fronte Grossman apprende la disciplina militare e perde 20 kg.

Una guerra che muterà anche Pëtr Semënovič Vavilov, personaggio del libro: appena ricevuto i documenti per la convocazione, si preoccupa ora di non avere abbastanza tempo per lasciare alla propria famiglia la legna che li potrà tenere al caldo per il resto dell’inverno. «Un contadino che lascia il suo villaggio per la guerra non sogna medaglie e gloria», riflette Vavilov. «Sa che probabilmente sta per morire». Una guerra, e una vittoria, che Grossman descrive come un testimone, enfatizzando molto e raccontando lo sforzo di un intero Paese per sconfiggerne un altro, tanto da essere definito “il Tolstoj dell’Unione Sovietica”.

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