Diritti

L’illogica scelta tra famiglia e professione

Samantha Cristoforetti lascia i figli sulla Terra. Apriti cielo! Ma far crescere un bambino e far crescere un progetto non sono troppo dissimili. È la polarità a essere ingiusta
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30 aprile 2022 Aggiornato alle 06:30

Il lavoro che non c’è. Quello sfruttato, precario, malpagato. Le morti sul lavoro. Il lavoro che non piace più, i licenziamenti di massa. Non c’è forse stata epoca quanto la nostra in cui al lavoro è stata associata una connotazione negativa. Fonte di profonda infelicità, senza se e senza ma.

Eppure tutti noi lavoriamo e probabilmente continueremmo a farlo anche se il motivo non fosse solo la nostra sopravvivenza economica. Al di là di ogni retorica aziendalista, una cosa possiamo dirla alla vigilia del 1° maggio: il lavoro può essere bello, il lavoro può essere profondamente appassionante, il lavoro può essere una delle ragioni più importanti della vita. Degli uomini, ma anche delle donne.

Per questo le ingiustizie che si compiono oggi verso queste ultime sono soprattutto due: rendere loro impossibile fare il lavoro che veramente amano, perché troppo spesso sono impiegate in lavori scarsamente qualificati per i quali sono ipertitolate e che dunque portano insoddisfazione e frustrazione. E obbligarle tragicamente a decidersi tra famiglia e lavoro, costringendola a lasciare una parte importante della propria identità.

Neanche come gioco andrebbe posta alle donne la domanda su cosa sceglierebbero, se fossero obbligate, tra lavoro e famiglia: è una domanda stupida, perché si tratta di due poli attrattivi allo stesso modo. E non per forza in senso conflittuale e opposto. Non almeno così le donne li vivono, a meno che non subentrino ostacoli e conflitti che però sono sempre socialmente indotti (scarsità di aiuti, servizi, stipendi troppo bassi, precarietà). Quando una donna dice che è felice di aver scelto la famiglia sta dicendo la verità, ma molto spesso la sua serenità deriva dal fatto che si è sottratta a un lavoro ostile, conflittuale, che le rendeva impossibile la vita. Non sta rifiutando il lavoro, ma uno logorante scontro quotidiano.

Prendete allora una donna che ama il suo lavoro e che può svolgerlo con serenità: e vedrete che darà il 100 per 100 e non perché, come vuole l’orribile stereotipo, è grata di avere un lavoro che le piace, quasi fosse un dono, e quindi si impegna al massimo, ma perché, semplicemente, le piace fare le cose bene, con una cura estrema. Che si tratti di applicare uno smalto, disegnare un apparecchio per un bambino, oppure andare nello spazio, proprio come Samantha Cristoforetti.

E proprio in questi giorni si è polemizzato molto con chi chiedeva all’astronauta a chi avrebbe lasciato per alcuni mesi i suoi figli. E lei ha risposto semplicemente “mio marito”. Sono girate vignette ironiche, come quella in cui Samantha Cristoforetti rassicura chi fosse eventualmente preoccupato dicendo “Tranquilli che c’ho il baby monitor”. La polemica contro la domanda sbagliata è stata abbastanza giusta, se non fosse per il semplice fatto che quella stessa domanda a un astronauta uomo non sarebbe stata mai posta.

Certo, sarebbe ipocrita non dire che tutte noi madri (e chissà quanti padri), specie di figli piccoli come i suoi, abbiamo guardato la Cristoforetti salutare i suoi bambini con un misto di fascinazione e terrore. Per il 99,9% di noi, sarebbe impossibile separarsi dai figli tanto da mettere tra noi e loro l’atmosfera terrestre, quando a malapena facciamo fatica a farli dormire da un amichetto mentre la notte ci rotoliamo insonni nel letto.

Ma non siamo tutte uguali e probabilmente Samantha Cristoforetti, forte anche di una fortissima formazione teorica e di tantissima pratica, vive con sicurezza un’esperienza pure così estrema e che così a lungo la porterà lontanissimo dalla sua famiglia. Sicuramente proverà malinconia, forse tristezza, così come la proveranno i suoi figli, ma due cose sono altrettanto certe: la prima è che grazie a persone come lei che l’umanità si è evoluta, consentendoci di non stare più nelle caverne.

La seconda è che se una persona, una donna in questo caso, fa un lavoro che l’appassiona in ogni sua fibra non è che “passi” sopra la famiglia, semplicemente mette in atto la migliore delle strategie per conciliare le sue diverse passioni.

D’altronde qualsiasi donna, se supportata adeguatamente e se tutto intorno a lei la aiuta invece di affossarla, è in grado di gestire le emozioni complesse della polarità tra famiglia e lavoro, persino quando quest’ultimo preveda un distacco ‘stellare’. Qualsiasi donna, così, è in grado di apprezzare e godere del suo lavoro, senza essere obbligata a una scelta impossibile. E questa sì, ingiusta e anche illogica. Anche perché crescere un bambino e far crescere un progetto non sono troppo dissimili. Richiedono fatica, cura, ascolto, osservazione, intervento, applicazione, immaginazione, riflessione, scelte. E, ovviamente, amore.

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