Diritti

L’insostenibile nobiltà del triplo cognome

Non sarà il cambio di rotta su una consuetudine sostenuta dal mero buonsenso a restituire alle donne ciò che a loro spetta, né a segnare la svolta verso un modello di società, di cultura, di civiltà diverso
Yayoi Kusama
Yayoi Kusama
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28 aprile 2022 Aggiornato alle 14:50

Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Oppure, se a Fantozzi preferite Bud Spencer: Coimbra de la Coronilla y Azevedo, e chi più ne ha più ne metta. Le conseguenze della decisione della Consulta rischiano di far impallidire entrambi gli esempi, ma a differenza che al cinema qui da ridere c’è davvero poco. Ricorrendo al rasoio di Occam (a proposito, chissà come si chiamava sua madre), bastano e avanzano sequenze simili a rendere evidente l’insensatezza dell’attribuzione di entrambi i cognomi dei genitori ai figli: se tuttavia invece che seguaci della logica stringata di Guglielmo siete ammiratori dell’estetica accumulatrice di Des Esseintes, tante altre se ne possono elencare.

A partire dal fatto che il cognome della madre, principio e fine della battaglia legale, a sua volta non è affatto della madre: ma del padre di lei e dunque, a ragion veduta, bisognerebbe risalire a quello della nonna, e poi della bisnonna, e così via in un “à rebours” almeno insensato quanto i suddetti trenini di cognomi. Per proseguire con la banale osservazione che portare il cognome del padre – o peggio, del marito, o addirittura dell’ex marito! – non ha impedito alle tante, maiuscole donne che hanno popolato la storia civile, letteraria e artistica di farsi strada.

Restando al secolo appena trascorso, e limitandosi al campo politico – manifestazione pubblica del potere, secondo Aron, che si realizza in particolare nella capacità di stabilire regole valide per tutti -, non mancano i casi lampanti: da Margaret Thatcher – nata Roberts, la figlia del droghiere, del cui padre e del cui marito la storia non serba che il lustro da lei donato al nome e al cognome, rispettivamente, che le hanno trasmesso – a Angela Merkel, nata Kasner, la cui scelta di non cambiare cognome dopo la separazione da Ulrich rispecchia il rapporto inverso tra autorevolezza e inutile rumorosità.

Inutile – per proseguire - come le difficoltà che si incontrerebbero in sede di ricostruzione onomastica di nuclei familiari, in ossequio alle differenti opzioni liberamente esercitabili dai singoli membri: questo se invece che di addizione parlassimo di sostituzione del cognome materno a quello paterno, come previsto da alcuni dei disegni di legge sul tema attualmente depositati in Parlamento. Qui non si tratta di gridare alla lesa maestà patriarcale, o di consegnarsi a nostalgie arcaiche, ma semplicemente di resistere strenuamente al reclutamento in una delle sedi degli UCAS (Uffici Complicazioni Affari Semplici), già così diffusi nel nostro Paese.

Si potrebbe infine ricordare, giusto per non sottrarsi all’accusa di benaltrismo, che non sarà certo una sentenza, sia pure costituzionale, a ribaltare d’un tratto quello che la storia, l’unica grande tessitrice e demolitrice di pratiche culturali, ha descritto nel corso dei millenni; anche se di questa storia, nell’epoca dei monumenti imbrattati, degli scrittori ostracizzati e dei libri all’indice, ci illudiamo di poter fare a meno.

Soprattutto, non sarà decisamente il cambio di rotta su una consuetudine sostenuta dal mero buonsenso a restituire alle donne ciò che a loro spetta, né a segnare la svolta verso un modello di società, di cultura, di civiltà diverso, fondato sulla cura, sulla relazione, sulla generazione – matriarcale, se volessimo usare una parola mai troppo grande, nella quale le beghe sui cognomi e simili verrebbero finalmente restituire alla loro esatta dimensione: inversamente proporzionale rispetto alla lunghezza del cognome.

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