Futuro

L’innovazione per il bene comune

Nell’abissale profondità dell’incertezza che si è aperta con la successione di crisi del millennio, resta aperta una domanda, propositiva: gli umani ne possono, paradossalmente, uscire comunque migliori?

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28 aprile 2022 Aggiornato alle 06:30

Le crisi sono state una fioritura di cigni neri: l’attacco alle Torri Gemelle del 2001, l’implosione della finanza autoreferenziale del 2007-2008, la crisi istituzionale dell’Europa investita dalla crisi finanziaria del 2012 e dalla Brexit del 2016, la pandemia del 2020-2021, la guerra in Europa del 2022.

I cigni neri sono tali perché smentiscono teorie assunte come certe: la globalizzazione come destino comune dell’economia mondiale, il mercato finanziario come motore del sistema che garantisce la migliore allocazione delle risorse possibile, il destino espansivo dell’Europa dell’austerità di bilancio pubblico.

In tutto questo, la teoria più colpita è quella che ha sostanziato quarant’anni di neoliberismo. Una teoria che consentiva di allineare una schiacciante maggioranza di persone, istituzioni, partiti e poteri, sull’idea - tanto banale quanto attraente - secondo la quale “la vita è una gara e vince il migliore”. Una teoria dalla quale discende un corollario, sottile e velenoso: se qualcuno ha vinto, vuol dire che è il migliore; dunque, il suo potere, la sua ricchezza, la sua notorietà sono legittimi, giusti, ammirabili.

I fatti si sono incaricati di dimostrare che la teoria neoliberista non era sostenibile. La gara della vita non è sempre giusta: c’è chi vince perché è semplicemente partito avvantaggiato; c’è chi usa la vittoria per trasformarsi da innovatore in rentier; c’è chi manipola l’informazione e se ne avvantaggia. Il neoliberismo supponeva che il mercato fosse abitato da persone razionali, perfettamente informate, mai troppo potenti rispetto agli altri operatori. La scoperta che queste condizioni non esistevano, che il sistema non privilegiava la lealtà del mercato ma l’avidità del capitalismo, che la gara della vita era truccata, ha generato talmente tanto rancore da avviare un processo che le istituzioni convinte della teoria tecnocratica hanno chiamato populismo.

Anche questa fase si è probabilmente sgonfiata. Le istituzioni, almeno in Europa, hanno scelto una nuova traiettoria. Gli eccessi del capitalismo cominciano a essere affrontati dalle nuove regolamentazioni, anche se il potere delle grandi aggregazioni di denaro resta immenso. Le sfide globali, come l’emergenza climatica e la polarizzazione sociale, cominciano a essere considerate il punto di partenza per una nuova direzione di sviluppo.

Il punto è che, mentre la teoria neoliberista è crollata di fronte ai fatti, una nuova teoria stenta a popolare l’immaginario della società con altrettanta efficacia. Per riuscire, la nuova teoria deve essere facile da enunciare, capace di generare risultati abbastanza visibili o almeno far credere di poterli generare, emozionare e motivare un vastissimo insieme di scelte: da quelle che guidano le persone nella vita quotidiana alla scommesse sul futuro che le società compiono, dalla definizione del successo alle grandi riforme di sistema.

Paolo Venturi e Flaviano Zandonai ne scrivono nel loro nuovo libro: Neomutualismo (Egea 2022). La complessità del compito di sostituire il neoliberismo come paradigma economico maggioritario, o almeno di avviare un processo per generare una forte alternativa, è il sottotesto del libro che affronta il tema a tutto tondo. Con un’attenzione iper-contemporanea all’innovazione: non si tratta di tornare a forme di mutualismo difensivistico che serve a proteggere le persone dal fallimento o dalle difficoltà congiunturali, ma di far leva sulla collaborazione per generare innovazione di tipo nuovo.

All’insegna di un’esperienza, ormai assorbita durante le crisi, soprattutto quella pandemica: un male comune può rigenerare la consapevolezza del bene comune. Il che moltiplica l’attenzione per un insegnamento dell’economista premio Nobel Elinor Ostrom: «Il modello di gestione deve essere congruente con la natura del bene: se questo è comune, anche la gestione deve esserlo». E dunque l’innovazione nel bene comune segue logiche totalmente ridisegnate rispetto a quelle basate sul motore finanziario. Ma deve avere la stessa ambizione in termini di impatto. È possibile?

È possibile innovare nella prossimità, come suggeriva Ezio Manzini nel suo Abitare la prossimità (Egea 2021)? È possibile innovare ispirandosi all’etica come suggerisce Luciano Floridi in Etica dell’intelligenza artificiale (Raffaello Cortina 2022)? Un intero paradigma di valori e sistemi incentivanti deve essere sviluppato.

In un’intervista a Jimmy Wales, chi scrive aveva chiesto: «È possibile creare comunità scalabili?» Il fondatore di Wikipedia aveva risposto: «Le comunità non scalano, sono fatte di persone che si conoscono. Ma si possono creare strumenti che facciano scalare l’impatto che le comunità possono avere sul mondo». Questo perlomeno è un obiettivo chiaro per gli innovatori sensibili al bene comune.

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