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California-Italia, viaggio di solo ritorno

Dal 2018 sono rientrati in Italia più di 40.000 persone. Non chiedeteci perché torniamo, chiedeteci che cosa portiamo. Come i returnee possono mostrarci una terza via tra l’andare e il tornare.

Dopo dieci anni di lavoro all’estero tra Stati Uniti e Francia, ho mandato due email.

In una mi sono licenziata dal lavoro di Direttrice Comunicazione per l’avamposto californiano di una grande azienda italiana. Con l’altra ho scritto agli avvocati per fermare il mio processo di green card.

Avevo lasciato l’Italia alla volta di New York nel 2009. Dopo aver ricevuto l’offerta, ho detto sì in quarantotto ore e ho fatto sei feste d’addio. Con l’occasione di una missione aziendale negli Stati Uniti arrivava per me l’opportunità di farcela, che sempre di più sembrava coincidere con l’andarsene. “Finalmente sono fuori di qui”, mi dicevo sospirando dalla stanchezza sociale accumulata. Da Italiana che viveva nella più grande metropoli del Nord, mi sentivo affannata dalla pressione sociale di appartenere a una storia sola: se vivi a Milano, lavori nella moda (e lavorerai nella moda per sempre); se vivi a Milano, devi lavorare fino a mezzanotte; se vivi a Milano, meglio andarsene nel week-end.

Avevo chiesto alle mie colleghe di lasciarmi qualcosa in pegno da restituire al ritorno: un peluche, una sciarpa, un libro. Tre anni di missioni sono diventati dieci, fino a quando ho fatto domanda per restare negli Stati uniti. Quando sono tornata a Milano, non avevo una green card, ma avevo ancora il peluche, la sciarpa e il libro. La verità è che non li ho mai restituiti, perché quando sono arrivata in Italia non sentivo di essere ritornata davvero.

Quando ho raccontato di voler lasciare la mia vita e ricominciare da dove ero partita, i miei amici e colleghi americani mi hanno riempito di “Congratulations! Amazing!”. Per loro la mia era una storia di coraggio e self-empowerment. Una volta arrivata in Italia, mi sono invece sentita dare della pazza. Alcuni hanno pensato addirittura che mentissi, che non fosse vero che avessi preso quella decisione.

Mi sono accorta che in Italia l’andarsene era da tutti considerato un successo, il ritornare invece era generalmente visto come un segno di fallimento. Le domande che mi sentivo fare più spesso erano: “Ma perché?”, “Chi te l’ha fatto fare?”. Nella mia ricerca personale e professionale vorrei cercare per una volta di spiegare perché torniamo e che cosa possiamo offrire a chi è disposto ad ascoltare.

Ritorniamo perché “noi” non è il contrario di “loro”

Nel podcast The Design of Return, che ho creato per esplorare l’idea di casa per coloro che a casa non ci si sentono mai veramente, ho intervistato Rita Elvira Adamo, la co-fondatrice di Belmondo, un progetto di residenza collettiva in Calabria nato dalla sua Londra. Mentre provavamo a definire questo strano sentimento dell’essere state Italiane altrove e mantenere lo status di straniere in patria, abbiamo trovato un nome che ci identifica: noro. Una crasi tra “noi”, che ci siamo formati altrove, e “loro”, che si sono formati vicino casa. Se siete seduti a tavola con qualcuno di noro, domande come “Ti piaceva di più Parigi o New York?” non porteranno a nessun’altra risposta che a un “In realtà non posso scegliere”. Ma il non poter scegliere una sola via è esattamente quello che di nuovo possiamo portare a casa, in Italia. E se noro non fosse solo cosa ci definisce, ma un nuovo modo di essere Italianə insieme, ovunque?

Perché vogliamo unire lavorare meglio a lavorare meno

“In Italia non torna mai nessuno perché non paghiamo abbastanza”, ho sentito in conversazione con una manager di una grande società di ricerca. “Non ti conviene fare la freelance perché paghi troppe tasse. “Aprire un’azienda è difficilissimo”. Ma quindi adesso che sei in sabbatico, vivrai sotto i ponti?”. Questo è solo un esempio delle barriere di scoraggiamento issate all’ingresso dei returnees. Sia che abbiamo scelto di tornare sia che siamo stati costretti a rientrare, ci ritroviamo a dover mostrare una fermezza di spirito degna di Atreyu tra le piramidi laser de La storia infinita . In realtà, il ritorno mi ha insegnato a immaginare un nuovo design di vita e lavoro che nella vita precedente in cui vivevo sull’onda dopaminica della carriera da expat, non ero solita affrontare. Per tornare, sono stata costretta a risparmiare. Una volta risparmiato ho potuto considerare i vantaggi di un costo della vita più basso come quello italiano. E una volta affrontato il mercato del lavoro italiano, ho dovuto imparare a trovare il mio spazio, a metà tra casa e il globo. E se unissimo a un metodo strutturato imparato altrove una cultura umana ereditata a casa?

Perché divagare non è il contrario di essere efficienti

Troppo spesso la conversazione si interrompe al livello di “sei tornato perché c’è il cibo buono o semplicemente perché In Italia si vive meglio”. Il ritorno in Italia invece riguarda più profondamente il modo di fare relazione. In particolare, soprattutto dopo aver vissuto in paesi anglosassoni, tornare qui aiuta a recuperare un rapporto con il tempo. Le conversazioni in Italia, sia con amici che per stringere accordi di lavoro, hanno un ampio margine di tempo. Tornare significa riconciliarsi con la spontaneità, con il divagare, perché le conversazioni sono prima dirette all’esplorazione e solo dopo all’efficienza. Dall’altra parte, quando il tempo è troppo e può sembrare inconcludente, c’è bisogno di attivare altro per facilitare la presa di decisioni. E se sapessimo fare delle lunghe conversazioni efficienti e poi prenderci una pausa caffè?

Non chiedeteci perché torniamo, chiedeteci come ritornare insieme a un Italia che dobbiamo ancora scoprire.