Diritti

Così i cambiamenti demografici trasformeranno le nazioni

Osservare le modifiche nella composizione anagrafica ed etnica di una popolazione può aiutare a prevedere situazioni di tensione o conflitto. Ma anche opportunità di pace e crescita economica
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
15 aprile 2022 Aggiornato alle 07:00

Nel 2021, secondo gli ultimi dati Istat, si è registrato un picco negativo di nascite che per la prima volta non hanno raggiunto quota 400mila, con un calo del’1,3% rispetto al 2020 e addirittura del 31% rispetto al 2008, l’anno di massimo più recente.

Il nesso tra la diminuzione dei nati e la crisi pandemica sarebbe chiaro. “L’illusoria impressione del superamento dell’emergenza percepita a maggio 2020 - ha puntualizzato l’Istat - può aver determinato l’aumento dei nati a marzo 2021, mese in cui si osserva una lieve inversione di tendenza (+4,7%) rispetto allo stesso mese dell’anno precedente”.

Intorno a giugno e luglio, la curva che disegnava il trend positivo di nascite ha cominciato a scendere a -5,7% e -5,5%. Anche la distribuzione geografica del fenomeno coincideva con gli altri dati: la seconda ondata di Coronavirus, infatti, ha interessato maggiormente il Centro-Sud. Non a caso, abbiamo assistito nel periodo estivo a un calo di nascite più incisivo proprio nelle zone del Centro (-8,0%) e del Mezzogiorno (-7,5%).

A questo poi si devono aggiungere i 59mila morti dovuti al covid-19 nel 2021 (circa l’8,9% dei decessi totali), in calo rispetto ai 77mila decessi per coronavirus del 2020, ma che assieme al crollo delle nascite a livello nazionale (-13,4%) si fanno sentire a livello demografico.

Seguendo le proiezioni dell’Istituto di statistica, nel 2050 l’età media della popolazione sarà di 50,7 anni, rispetto ai 45,7 del 2020. Nel 2048, i decessi potrebbero essere il doppio delle nascite (784mila contro 391mila) e nel 2040 le persone destinate a vivere sole potrebbero ammontare a 10,3 milioni, dagli 8,6 del 2020.

Un caso tutt’altro che isolato quello italiano: persino la Cina sta affrontando una brusca inversione di marcia. Nel gennaio del 2022 il National Bureau of Statistics of China, come riporta Nature, ha reso noto che per il quinto anno consecutivo il tasso di natalità del paese è sceso ancora.

Nel 2021 in Cina sono nati 1,4 milioni di bambini in meno rispetto al 2020: stiamo parlando di 10,6 milioni, anziché 12 milioni di neonati. Il governo già dall’anno scorso ha risposto al preoccupante calo delle nascite modificato la normativa che dal 2022 proibiva alle coppie di avere più di un figlio, consentendo un massimo di 3 figli a nucleo familiare.

Se si guarda al Giappone, lo scenario non è molto diverso: un Paese moderno e ipertecnologico, ma con una fertilità bassissima e una popolazione sempre meno giovane. L’assenza di un vero ricambio generazionale in settori come quello sanitario e assistenziale hanno fatto sì che il Paese del sol levante ricorresse a robot e tecnologie di ultima generazione per garantire cure e compagnia agli anziani.

Come l’androide PaPeRo, lanciato nel 2021 da Nec Corporation e dotato di fotocamera per le riprese, riconoscimento facciale e sensori per registrare temperature e umidità. Secondo un rapporto di BMC Geriatr del 2021, nel 2045 il 25% della popolazione giapponese over 65 soffrirà di demenza senile.

“Il Giappone sta invecchiando rapidamente e se dovesse continuare così, la nazione stessa potrebbe scomparire del tutto”, scrive Jennifer Sciubba – professoressa associata di Studi Internazionali al Rhodes College ed ex consulente demografica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti - nel suo nuovo libro “8 billions and counting How sex, death and migration shape our world”.

Come spiega l’autrice, il ventunesimo secolo, al contrario del precedente, non è caratterizzato da una crescita esponenziale e uniforme della popolazione, ma di una crescita differenziale: anche sul piano demografico si riflette il divario tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri. Mentre il mondo procede inesorabile verso gli 8 miliardi di persone, le nazioni che hanno rivestito un ruolo focale nel secondo dopoguerra si stanno trasformando nelle società più anziane del Pianeta e della Storia umana.

Le tendenze demografiche – per esempio la composizione anagrafica ed etnica di una popolazione - possono rivelarsi degli indicatori fondamentali per la previsione degli scenari futuri, in termini di pace, guerra, repressione, democrazia e prospettive economiche.

Mentre in un’ampia porzione del globo (Europa, Nord-America e America Latina, Australia, Nuova Zelanda e Asia orientale e sud-orientale) il tasso di fecondità totale (TFR) – ossia il numero medio di figli che una donna potrebbe dare alla luce nel corso della propria vita – rimane inferiore nel 2020 rispetto al livello di sostituzione - cioè il numero medio di figli di cui una coppia necessità per garantire un effettivo ricambio generazionale - al contrario nelle regioni centrali dell’Africa, il TFR è destinato a crescere di 6 volte nei prossimi 70 anni. In Nigeria, i bambini e gli adolescenti costituiscono la metà della popolazione.

Entro il 2050, in Europa il numero di cittadini si ridurrà da 521 milioni a 482 milioni. Nello stesso lasso di tempo, l’Etiopia e la Repubblica Democratica del Congo (RDC) si attesteranno tra i primi dieci paesi più popolosi del mondo, affiancando Brasile e India.

Anche se la popolazione aumenta nei Paesi dell’Africa subsahariana, vale la pena notare che il loro consumo in termini di risorse è spesso minimo rispetto a popolazioni più anziane. Secondo un rapporto del Center for Global Development di Washington DC, entro gennaio 2022 un individuo medio negli Stati Uniti avrebbe superato le emissioni annuali di anidride carbonica di cittadini equivalenti in 22 paesi a basso reddito.

In determinate zone, tra cui Sudan, Somalia e Yemen, la pressione demografica acuirà tensioni e conflitti interni e potrebbe sfociare in guerre civili e devastazioni ambientali. In contesti del genere i bambini nascono già in povertà e con l’impossibilità, o quasi, di trovare in futuro un impiego dignitoso.

C’è poi da valutare il fenomeno delle migrazioni. Tra il 2000 e il 2020, secondo le Nazioni Unite, il numero di migranti e rifugiati internazionali fuggiti da conflitti, crisi, persecuzioni, violenze o violazioni dei diritti umani è duplicato, da 17 milioni a 34 milioni. Se poi si contano i 4 milioni di rifugiati costretti a scappare dall’Ucraina negli ultimi 2 mesi, i numeri si fanno ancora più impressionanti.

Ci sono poi le migrazioni intere: tra il 2008 e il 2020, una media di 21,8 milioni di persone all’anno ha dovuto trasferirsi, rimanendo sempre entro i confini nazionali, a causa di disastri ambientali, come inondazioni o incendi.

A dir la verità, i Paesi meno abbienti come Giordania, Turchia e Kenya ospitano l’85% degli sfollati forzati, mentre quelli con il reddito più alto cercano in tutti i modi di tenere fuori dai propri confini territoriali gli esodi in corso da Siria, Sud Sudan e Afghanistan.

Se però nel suo saggio la professoressa Sciubba non si sofferma particolarmente sulle origini di questo divario, c’è chi in passato ha indagato a fondo il fenomeno, come Zygmunt Bauman che dedica una parte del suo Amore liquido proprio alle conseguenze dei grandi flussi migratori in un mondo globalizzato: “ L’attuale tendenza di ridurre drasticamente il diritto all’asilo politico, accompagnata dal ferreo divieto d’ingresso agli ‘immigranti economici’ (…) indica (…) l’assenza di una strategia e il desiderio di evitare una situazione in cui tale assenza possa causare imbarazzo politico. In queste circostanze, l’assalto terroristico dell’ 11 settembre è stato un enorme regalo ai politici”.

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