Futuro

Professione fact-checker

Mai come oggi verificare le informazioni è fondamentale. Tanto che esiste persino una giornata dedicata a questo mestiere, il 2 aprile. Ripercorriamo qui la storia del fact-checking, dalla dezinformacija di Stalin ai pericoli della Rete
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5 aprile 2022 Aggiornato alle 15:00

    Sveglia, caffè e computer acceso: la giornata di un fact-checker potrebbe iniziare così, come quella di tante altre persone. A dover cambiare, rispetto ad altri lavori legati al mondo della comunicazione, è l’assetto mentale: regola numero uno, cercare di non avere nessuna idea o opinione preconcetta rispetto a una notizia. In più, dal punto di vista pratico, meglio essere online con una VPN, una rete virtuale privata. In italiano la traduzione più vicina è “controllore dei fatti”. Ma si tende a utilizzare il termine inglese. Più figo.

    Nell’ultimo periodo si è sentito tanto parlare di disinformazione, legata al Covid-19 e alla guerra in Ucraina, ma poco di chi fa in modo che le notizie false e scorrette vengano effettivamente rimosse. Questo - e non solo questo - è il lavoro di chi verifica le notizie. Il lavoro del fact-checker.

    Facebook così come ByteDance, la società cinese proprietaria di TikTok, si servono di specifiche piattaforme di fact-checking che, dopo una attenta formazione, affidano ai loro fact-checker il controllo dei contenuti. I più sono giornalisti: non necessariamente esperti di social network, ma comunque abili nella selezione e ricerca delle notizie e con diverse competenze linguistiche.

    Come agiscono? Nei video su TikTok, per esempio, vengono analizzate sia le affermazioni di una persona che il contenuto di un articolo eventualmente segnalato, basandosi sulla valutazione nelle pubblicazioni scientifiche più riconosciute - se il tema riguarda la medicina o vaccini - così come su dati governativi ufficiali. Parlando di emergenza pandemica molti governi - a partire da quelli italiani, inglesi, americani e tedeschi - offrono dati costantemente aggiornati (per quanto l’onda negazionista imputi loro di tenere nascosti i dati reali) raccolti direttamente dagli enti regolatori che si occupano, fra le altre cose, di farmacovigilanza. Diverso e più complicato per i contenuti pubblicati nell’ultimo mese sulla guerra in Ucraina a causa della massiccia propaganda russa e la quantità di video e immagini non girati sul posto: in questo caso, ci si affida a giornalisti in loco di media autorevoli, e si controlla se i filmati sono già presenti online da tempo (spesso anni) e tagliati per sembrare autentici.

    Per essere sempre obiettivo, il fact-checker non deve avere la possibilità di sapere quale sia il primo account che ha messo in circolo la notizia, in modo da non essere influenzato dalla reputazione o linea della fonte (o dei contesti politici e d’opinione a essa collegati). Per intenderci, il “controllore” è sì tenuto a considerare il contesto dell’argomento di cui si parla, ma non in modo specifico rispetto a schieramenti ben precisi e consolidati, per non cadere in giudizi legati all’opinione politica propria o ad antipatie personali. Ogni variabile “esterna” potrebbe infatti influenzare la decisione finale del report, che deve invece essere il più possibile “tecnica” e oggettiva.

    Per non incorrere nel rischio di esprimere un giudizio che sia affrettato, superficiale e influenzato da inconsce inclinazioni o “scorciatoie mentali”, ci vuole tempo: per verificare un video di tre minuti su TikTok, può volerci infatti anche un’ora. Ci vuole molta cura e capacità d’analisi: nella macchina della disinformazione, un’affermazione di un Capo di Stato può circolare completamente stravolta e farlo tra milioni di utenti, tagliata e riadattata in modo da sembrare vera. Il trucco: mai fermarsi alla prima ricerca di Google.

    Come si fa disinformazione

    “Il problema con le citazioni che si trovano online è che sono spesso false”. A chi attribuire questa frase? Stando a quello che si trova sulla Rete è difficile stabilirlo, alcuni dicono Oscar Wilde, altri Albert Einstein. Potremmo fare una lunga lista di esempi simili a questo per approcciarci al tema della disinformazione.

    Per iniziare, è bene tenere a mente che tutto può essere manipolato: un dato, una immagine, un video e una dichiarazione. Quello che ci è meno noto è come viene messa in moto la macchina che fa in modo che una notizia falsa circoli talmente tanto da sembrare vera.

    Il termine disinformazione, probabilmente derivato dalla parola russa “dezinformacija, fu coniato da Stalin e usato come nome di un ufficio di propaganda del KGB. La parola “misinformation” invece, più generica e che si traduce con falsa informazione, esiste già dalla fine del XVI secolo. Con “disinformazione” ci riferiamo quindi a tentativi deliberati di ingannare o fuorviare la realtà tramite la velocità, la portata e le tecnologie del Web.

    In questi anni Internet e i social media hanno solo velocizzato e amplificato la macchina già esistente. È bene sottolineare che i soggetti che diffondono disinformazione hanno obiettivi diversi, alcuni hanno motivazioni finanziarie, altri sono trainati da scopi politici e si servono della disinformazione per provocare opinioni tra la popolazione, per influenzare un processo politico o semplicemente per polarizzare e dividere la società.

    Nel 2019 il centro di ricerca americano Data & Society che si occupa di studiare la disinformazione online, ha pubblicato un rapporto che spiega come vengono manipolati alcuni contenuti online. I cosiddetti manipolatori dei media utilizzano spesso tecniche specifiche per nascondere la fonte delle informazioni false. I ricercatori di Data & Society, Joan Donovan e Brian Friedberg, hanno etichettato questa strategia come “source hacking”, letteralmente “hacking della fonte”. Tipicamente utilizzato durante gli eventi di cronaca, il source hacking prende di mira giornalisti e altri personaggi pubblici influenti per raccogliere falsità e amplificarle inconsapevolmente al pubblico. Per i due ricercatori, esisterebbero poi 4 tecniche principali di source hacking, dalla condivisione di documenti falsi alla raccolta di informazioni da più fonti in un unico documento condivisibile, solitamente sotto forma di immagine.

    Queste strategie sono spesso utilizzate contemporaneamente e rendono difficile trovare prove per scagionare gli interessati; il loro successo e valore deriva da quanto pubblico fatto di influencer, giornalisti e personaggi noti vengono raggiunti dalla falsa notizia e la condividono spacciandola per vera. Un modo efficace è condividere la notizia su gruppi online di estremisti, da quelli Facebook a Telegram, nei quali una notizia si diffonde più rapidamente. Un esempio è di nuovo la pandemia da Covid-19 iniziata nei primi mesi del 2020: in quel periodo migliaia di contenuti fuorvianti, da una parte allarmistici, dall’altra negazionisti, hanno popolato il web, portando le persone a diffondere informazioni di tutti i tipi fuorché vicini alla scienza.

    La parola agli esperti: David Puente e Walter Quattrociocchi

    Ogni anno su Google vengono fatte migliaia di miliardi di ricerche, e ogni giorno il 15% delle ricerche che vediamo sul motore di ricerca sono nuove. Come fare a capire se tutto quello che troviamo online corrisponde alla realtà? Tra le missioni di Google, quella di organizzare le informazioni globali e renderle accessibili a tutti. Semplice a dirsi, un po’ più difficile a farsi.

    Alcune informazioni sono oggettive, come l’anno di nascita della Repubblica italiana (2 giugno 1946), per altre, “la ricerca diventa uno strumento per esplorare diversi punti di vista e aiutarti a formare una tua opinione”, si legge sulla pagina dedicata all’accesso alle informazioni di Google. Non è un segreto che l’azienda americana rimuova i contenuti dai risultati di ricerca solo in circostanze limitate, a esempio in ottemperanza a leggi locali, nazionali e internazionali, o su richiesta del proprietario di un sito. “Combiniamo centinaia di segnali per determinare quali risultati mostrare per una determinata ricerca, da quanto è recente il contenuto, al numero di volte in cui il termine di ricerca compare nella pagina – spiegava Google a metà del 2017 quando ha dichiarato guerra alle fake news – Abbiamo modificato i segnali per aiutare a far emergere più pagine più autorevoli e far retrocedere contenuti di scarsa qualità”.

    Ma controllare la mole di contenuto sul motore di ricerca è tutt’altro che facile, anche per l’intelligenza artificiale. Lo sa bene David Puente, giornalista e responsabile del progetto Fact-checking del quotidiano Open. È considerato il debunker italiano più famoso, da anni si occupa di smentire notizie false, non verificate e manipolate, pubblicando sia gli strumenti e i processi utilizzati, che i risultati ottenuti. Non ha sempre fatto questo lavoro, ma la conoscenza di Internet, dalle sue potenzialità ai suoi pericoli, era la sua passione sin da bambino. «Nel 2014 ho scoperto delle reti che diffondevano notizie false - dichiara David a La Svolta - e ho iniziato a fare informazione sul blog che avevo creato. All’inizio era un secondo lavoro che facevo per lo più nelle ore notturne e che percepivo come un impegno sociale, con Open è diventata una vera e propria occupazione». Durante la pandemia da Covid-19 la quantità di lavoro è cresciuta tanto da ricevere in media 300 messaggi di richiesta di verifica di articoli o segnalazione sul numero WhatsApp aperto con la sezione Fact-Checking del giornale. Da aprile 2021 Open è membro dell’IFCN, l’International Fact-Checking Network, una rete lanciata nel 2015 per riunire la comunità di fact-checker di tutto il mondo insieme alle media company che si occupano di disinformazione.

    Con la notorietà di David sono arrivate anche le minacce degli utenti, la maggior parte da chi è dentro la macchina della disinformazione. «La verifica dei fatti è il vaccino dell’informazione», si legge sulla pagina Facebook di David Puente, che vede del potenziale nell’utilizzo delle nuove tecnologie per combattere la disinformazione, ma non l’unica soluzione. A monte, l’importanza di una comunicazione chiara da parte delle istituzioni, primo step per fare in modo che un cittadino medio non creda alla prima notizia che riceve su WhatsApp senza domandarsi se sia vera o meno. «C’è una scala di grigi, non vedo solo bianco e nero - spiega David parlando dell’utilità del fact-checking - nel mezzo ci sono le persone e vanno guidate verso una giusta informazione».

    Non è della stessa idea Walter Quattrociocchi, professore e direttore del Center of Data Science and Complexity for Society presso l’Università La Sapienza di Roma: «Il fact-checking è utile solo per chi supporta una narrativa scientifica, è inutile per combattere le fake news», spiega a La Svolta. Dietro alla dichiarazione del professore che ha partecipato a diverse ricerche internazionali sul tema, c’è il mare magnum della polarizzazione, concetto secondo cui un gruppo di persone tenderà ad allinearsi a messaggi che si avvicinano alla propria opinione. Per Quattrociocchi, l’informazione ha un grande impatto sull’opinione: con l’ingente quantità di contenuti che possono causare un limite cognitivo, una persona polarizzata tenderà a informarsi solo nella “echo chamber” di appartenenza - un no-vax, per esempio, preferirà informarsi su canali dove la sua opinione viene avvalorata, anziché smentita.

    L’onda delle fake news può essere vista come effetto collaterale del sistema (mediatico, politico e sociale) in costante evoluzione. Per limitarne la diffusione, ancora una volta, basterebbe cercare di capire come orientarsi sulla Rete facendosi le giuste domande e cercando di fermarsi davanti alla fermata dell’estremismo, da secoli pericoloso per tutta la specie umana.