Ambiente

Ecco perché piove sempre in Inghilterra

A inizio 2020 l’Università di Reading ha lanciato un progetto di “citizen science”: creare una comunità di collaboratori online per digitalizzare 130 anni di annotazioni sulle precipitazioni british. Hanno risposto in 16.000. Scoprendo che…
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31 marzo 2022 Aggiornato alle 13:00

Poteva succedere solo lì. Si è chiuso con successo nei giorni scorsi in Gran Bretagna un progetto di citizen science tra i più vasti, curiosi e, indubbiamente, più british – di sempre. Per citizen science si intende la pratica di coinvolgere in uno studio scientifico comuni cittadini che, volontariamente, donano il loro tempo per collaborare a raccolte dati, censimenti, monitoraggi sul territorio.

Argomento del progetto inglese? La pioggia, naturalmente, la più inglese delle ossessioni e, da sempre, primo tema cui si ricorre Oltremanica per rompere il ghiaccio. Un sondaggio effettuato nel 2010 dall’antropologa Kate Fox - sì, c’è chi ha studiato anche questo – sosteneva che il 94% dei Brits “avrebbe conversato a proposito del tempo atmosferico almeno una volta nelle ultime 6 ore”. Il 38% nell’ultima ora. La studiosa concludeva che “in questo momento un terzo della nostra popolazione sta parlando di pioggia, nebbia e schiarite”. Al tema dedicò un’inchiesta nel 2015 la Bbc, concludendo che i britannici “pensano sempre a quello” per cause geografico-climatologiche, antropologiche e anche culturali: nel Paese con cento modi per dire “pioggia” è un obbligo approcciarsi a sconosciuti con un argomento “neutro”.

Cerano solidi basi, insomma, dietro il progetto lanciato a inizio 2020 dall’Università di Reading: creare una comunità di collaboratori on line per trascrivere e digitalizzare 130 anni di dati scritti a mano sulle precipitazioni in Gran Bretagna e Irlanda e sparsi in decine di archivi e biblioteche. Erano i giorni del primo lockdown, il più duro e angoscioso. La genialata era non solo di poter riordinare dati fino ad allora dispersi e ingestibili, ma anche di usare in modo fruttuoso il tempo degli inglesi isolati a casa. Quasi tutti con un pc e una connessione. Risposero in oltre 16.000.

Ad ognuno arrivò, in forma di foto digitale, una parte dei manoscritti fitti di cifre e annotazioni. In due settimane sono state poi trascritte e digitalizzate circa 66.000 schede cartacee, 5.200.000 “annotazioni” sul tempo. Otto volontari esperti (poi citati tra i coautori dello studio) le hanno messe in ordine cronologico e per zona. E il tutto è tornato agli studiosi, che hanno accorpato i dati antichi a quelli più recenti e già digitalizzati.

Il risultato sono quasi 200 anni di dettagliatissime rilevazioni pluviometriche. A partire dal 1836 (l’anno dopo Vittoria saliva sul trono), ma tra i documenti c’erano dati raccolti anche uno o due secoli prima. Anche perché da queste parti pare che la pioggia si studi da sempre. Ogni villaggio, spesso ogni fattoria aveva il suo pluviometro (un raccoglitore dell’acqua piovana graduato), da metà Ottocento una British rainfall organization coordinava il lavoro di “osservatori della pioggia”. E una tale Lady Bayning raccolse dati sui temporali ininterrottamente tra il 1835 e il 1887, ed era famosa per portarsi il pluviometro dietro anche se andava a Londra per un evento sociale.

Lo studio è uscito il 25 marzo, a due anni esatti dal lancio dell’operazione Rainfall rescue, sul Geoscence Data Journal. Cosa ha concluso? Che il 1855 fu uno tra gli anni più “asciutti” di sempre, che la fine del 1852 fu incredibilmente piovosa.

Grazie a questi dati, poi, come ha spiegato il professor e Hawkins, a capo del progetto, sarà possibile valutare con una nuova precisione la curva delle precipitazioni sul lungo termine, si otterranno modelli più accurati per prevedere gli eventi estremi. Ma l’aspetto più importante è stato aiutare i climatologi in quello che è il loro maggior dilemma: come distinguere i cambiamenti meteorologici ciclici da quelli “innaturali”, provocati dall’uomo?

Si parla insomma del classico titolo giornalistico sull’“anno più caldo di sempre”, dove il termine “sempre” indica in realtà la data delle più antiche rilevazioni. Ecco, estendere nel passato questo termine è un aiuto enorme per capire l’evoluzione dell’atmosfera e quello che ci aspetta domani.

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