Diritti

La violenza che non vogliamo vedere

La morte di Carol Maltesi è l’ennesimo femminicidio che tratteremo come un caso isolato, quando non lo è affatto, per non disturbare le delicate sensibilità degli uomini
Credit: engin akyurt
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30 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

Agli inquirenti ha detto che ha “agito d’impulso”, Davide Fontana, quando ha ucciso Carol Maltesi, ne ha fatto a pezzi il cadavere, l’ha nascosto nel congelatore, ha preso il suo telefono e si è finto lei rispondendo ai messaggi degli amici per mesi, prima di metterla in un sacco e buttarla in una scarpata, dove è stata trovata per caso da un passante. I titoli di giornale oggi si premuravano di informarci sulla sua professione, bancario e food blogger a tempo perso, come se fosse rilevante o solo come a dire, guarda quanto è normale questo mostro: non sembrava una cattiva persona. Di certo non aveva mai esibito segni di violenza prima d’ora, chi lo avrebbe mai creduto capace di uccidere?

Impulso. Mi passa pure la voglia di fare le battute. È finito pure il sarcasmo, sostituito da un’enorme stanchezza. La morte di Carol Maltesi, anche nota come Charlotte Angie, è l’ennesima morte di una donna uccisa da un ex partner a seguito di un litigio, e ogni volta che una donna muore per mano di un uomo dobbiamo vedercela con quelli del raptus (gli avvocati, i mezzi d’informazione che ripetono a pappagallo le linee difensive degli avvocati), quelli della gelosia che uccide, quelli che “Non tutti gli uomini!” (non si distribuiscono premi per il minimo sindacale della decenza, ragazzi), quelli che “Eh, ma lei [motivo per cui la sua morte era inevitabile e quasi autoprocurata]”, quelli che “Anche le donne sono violente”, e quelli che “Era pazzo”.

A che serve parlare di come si genera la violenza relazionale, di quali sono i meccanismi di cui si nutre, se poi tutto quel lavoro di decostruzione viene ignorato e si finisce per considerare ogni morte come un incidente isolato? A che serve far notare, ogni volta, che anche se l’assassino soffrisse di una patologia psichiatrica, questo non basta a spiegare come mai quelli che picchiano, stuprano, uccidono o abusano psicologicamente delle compagne siano maschi? A che serve, se la violenza maschile è completamente normalizzata, anzi, socialmente accettata come mezzo di risoluzione dei conflitti? Domenica notte, Will Smith si è alzato dalla sedia durante la diretta degli Oscar ed è andato a mollare una cinquina secca a Chris Rock, colpevole di aver fatto una battuta di cattivo gusto su sua moglie. La battuta era una battuta crudele e fuori luogo, ma continuo a vedere in giro gente che sostiene che certe cose si risolvono solo a pizze in faccia. Perché le donne vanno protette.

Non vogliamo vedere niente. Niente. E quindi non vediamo – e non vogliamo vedere – i segni della violenza in chi ci sta intorno. Non li vedono gli uomini in sé stessi, soprattutto, anzi: sono prontissimi a rivendicare la propria incapacità di risolvere una questione di parole con altre parole, anche dure. Poi ci stracciamo le vesti se dei ragazzini si accoltellano fuori da una discoteca perché uno ha guardato un po’ troppo la ragazza di un altro. Non vogliamo vedere né la normalizzazione, anzi, la romanticizzazione della violenza, né la donna trattata come proprietà, oggetto senza volontà. Non vogliamo vedere nessuno dei segnali e dei comportamenti che contribuiscono a irrigidire i ruoli di genere, al punto di rendere qualsiasi infrazione una minaccia esistenziale ai danni degli uomini.

A questo stadio è troppo presto per capire se Davide Fontana avesse già esibito segni di possessività o violenza abbastanza evidenti da far pensare che prima o poi sarebbe arrivato a uccidere: di certo, questi segni sono regolarmente sottovalutati nella vita di ogni giorno. L’uomo che ti controlla il cellulare, che decide se puoi uscire o meno e con chi, che sorveglia l’abbigliamento e il trucco, che all’interno di una relazione controlla i soldi, le abitudini e gli spostamenti della compagna: tutta roba che sentiamo uscire regolarmente nelle conversazioni quotidiane, non ci facciamo nemmeno caso. Non vogliamo vedere niente, non vogliamo cambiare niente. Soprattutto gli uomini non vogliono vedere. Sì tutti. O comunque la stragrande maggioranza. Di sicuro tutti quelli che diranno che no, loro non ci stanno a essere accomunati a un assassino, loro no, è una generalizzazione, le generalizzazioni fanno schifo, vergogna. Ogni tre giorni muore una donna, ammazzata da uno di loro. È sempre un incidente. È morta per impulso.

E continuiamo a ripeterlo, la violenza maschile è un fatto culturale: non è inevitabile, non è un fenomeno atmosferico, è il risultato di un metodo di socializzazione dei maschi che disumanizza le donne, le riduce a funzioni. Madri, mogli, sorelle, compagne, fidanzate, domestiche, collaboratrici, roba da guardare o da toccare o su cui masturbarsi. La nuova versione di Davide Fontana (ripresa pari pari dai giornali, come se fosse verità assoluta) è: l’ho uccisa durante un gioco erotico finito male. Con un martello (durante il gioco erotico? E che gioco erotico era?) E dopo che era morta, “non ha capito più niente” e quindi ha deciso, sempre d’impulso, che la vita della donna che aveva appena ammazzato valeva meno della sua libertà, e ancora seguendo l’impulso ha messo in piedi la complicata operazione di occultamento del cadavere. Ha comprato un congelatore, l’ha messo in casa della sua vittima, ce l’ha ficcata dentro. Il resto, per sommi capi, lo sappiamo.

Questo non è impulso, questo è metodo. Sono decisioni lucide prese in sequenza con un obiettivo, farla franca, le azioni di qualcuno che si è sbarazzato di un problema. E l’unica cosa che vedremo, anche stavolta, saranno i frettolosi tentativi maschili di allontanarsi il più possibile dal cuore del problema, evitando di prendersi delle responsabilità individuali e collettive. Non io, mai io, non sia mai, non mi riguarda.