Economia

Lunga vita agli abiti!

Il fast fashion perde profitti ed è finito persino nel mirino della Commissione Ue. Oggi la moda guarda a nuovi modelli di business più green oriented. Come dimostra il “caso” di Vestiaire Collective e di altre piattaforme di noleggio e second hand miliardarie
La nuova campagna di Vestiaire Collective.
La nuova campagna di Vestiaire Collective.
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
31 marzo 2022 Aggiornato alle 19:00

Soffia un vento nuovo nel mondo della moda, ed è sempre meno fast fashion. Dopo anni in cui l’approccio allo shopping è stato quello di accumulare capi realizzati in serie, di scarsa qualità e venduti a pochi euro con la consapevolezza che non sarebbero durati in eterno, oggi si fanno largo due trend che mettono al centro la sostenibilità: il vintage e il second hand. A trainarli sono principalmente i consumatori giovani alla ricerca di abiti originali, dal prezzo accessibile e dall’impatto ambientale limitato.

Una rivoluzione green che sta colpendo (e non poco) l’industria tradizionale della moda che solo ora, e con notevole ritardo, sembra iniziare a correre ai ripari. A dare l’accelerata a questo processo potrebbe essere l’Europa. È di questi giorni, infatti, la presentazione da parte della Commissione Ue di un pacchetto di proposte del Green Deal per rendere i prodotti più sostenibili, promuovere modelli di business circolari e responsabilizzare i consumatori verso la transizione verde.

In particolare, si chiede una nuova strategia per fare in modo che i tessili siano più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili, per contrastare il fast fashion, limitare la distruzione dei tessili invenduti e garantire che la loro produzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti sociali.

Secondo una ricerca pubblicata dalla Ellen MacArthur Foundation, un’organizzazione che sostiene la crescita dell’economia circolare, negli ultimi decenni la quantità di vestiti prodotti è cresciuta ma contemporaneamente i margini di profitto si sono ridotti e l’impatto sull’ambiente è aumentato. Tra il 2000 e il 2015 la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre il numero di volte in cui un capo viene indossato prima di essere gettato è diminuito del 36%.

Questa tendenza ha portato il comparto a produrre a livello globale circa 2,1 miliardi di tonnellate di emissioni di gas serra nel 2018, il 4% del totale, e a causa dei prezzi sempre più bassi e della perdita di entrate, a vedere diminuiti i margini di profitto in media del 40% dal 2016 al 2019 e, soprattutto a causa della pandemia, del 90% nel 2020 rispetto all’anno precedente.

È andata molto diversamente, invece, alle aziende che hanno sposato modelli di business green oriented.

Dal 2019, sette piattaforme di rivendita e noleggio abiti, Depop, Rent the Runway, The Real Real, Vinted, Poshmark, Vestiaire Collective e ThredUP, hanno raggiunto valutazioni miliardarie e sviluppato il potenziale per crescere dall’attuale 3,5% del mercato globale della moda al 23% entro il 2030, fornendo al contempo significativi risparmi ambientali.

Nonostante abbiano il merito di basarsi sul riciclo, per molte di loro tuttavia non è sempre chiaro se il modello di business sposato sia eco-friendly al 100%.

Tra gli esempi più virtuosi spicca quello di Vestiaire Collective, app di rivendita di capi pre-loved principalmente di lusso ma non solo, che promuovendo il concetto di moda circolare come alternativa alla sovrapproduzione e al consumo eccessivo, è arrivata ad avere oggi più di 15 milioni di utenti iscritti in tutto il mondo e 3 milioni di articoli provenienti da più di 80 Paesi. A settembre 2021 è stata la prima app di moda second hand a ottenere la certificazione B Corp, che la qualifica come società benefit e ne riconosce l’impegno nel mantenimento dei più elevati standard sociali e ambientali Un attestato in linea con i valori dell’azienda che punta entro i prossimi anni a diminuire ulteriormente il proprio impatto sul Pianeta.

È di questi giorni, inoltre, la sua nuova campagna “Lunga vita alla moda”, che incoraggia attivamente gli appassionati di moda a contribuire a un futuro più sostenibile. Volti dell’iniziativa, 5 pupazzi in tessuto riciclato che incarnano diversi stili, ognuno dei quali racconta un motivo per cui il second hand rappresenti il futuro della moda sostenibile.

Anche Depop ha deciso di spingere sull’eco sostenibilità, stilando un manifesto programmatico ancora tutto da verificare ma che nelle intenzioni punta entro il 2022, tra le altre cose, a ridurre l’impronta di carbonio dell’azienda e a usare per i propri uffici il 100% di energia rinnovabile.

Sulla stessa linea Rent the Runway, che ha annunciato l’impegno a comunicare tempestivamente i propri progressi green a partire dal 2023 e nel frattempo ha fissato gli obiettivi più importanti, tra cui la diminuzione delle emissioni di carbonio dell’attività fino ad arrivare a emissioni nette zero entro il 2040 e la riduzione al minimo dei rifiuti.

ThredUP, oltre a essere membro della Ellen MacArthur Foundation e a operare seguendo un piano di sostenibilità serrato, supporta gli sforzi per la moda sostenibile con la propria organizzazione no-profit thredUP Circular Fashion Fund, focalizzata sul supporto di aziende e individui nel settore della moda che stanno lavorando per un futuro più green.

Completamente made in Italy, infine, Greenchic, un marketplace di moda second hand che fino al 2021 si chiamava Armadio Verde. Nato dall’iniziativa di due genitori stanchi di vedere i vestiti dei propri figli durare al massimo un paio di mesi, oggi conta tantissimi utenti attivi mensilmente e oltre alla vendita si impegna in iniziative collaterali di beneficenza e la creazione di Upcycled, la prima linea di abbigliamento a marchio greenchic totalmente realizzata partendo dagli scarti.

Leggi anche