Futuro

Interoperabilità obbligatoria: per liberarsi dalle “catene” Big Tech

Con il Digital Markets Act la Ue fissa nuove regole antitrust contro Google, Meta, Apple. Come l’obbligo di rendere compatibili le piattaforme, per non dover rimanere prigionieri di una sola, grande, unica azienda
Credit: Zoe Holling
Tempo di lettura 5 min lettura
31 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

“Interoperabilità”. Certo, non è la tipica parola che accende gli animi nelle discussioni al bar o nei talk show. Anzi, si può dire che difficilmente desta interesse quando le infrastrutture sono interoperabili: ma si può stare sicuri che diventa un problema quando non lo sono. Di che si tratta? I telefoni sono interoperabili: se vogliamo chiamare una persona al telefono, non importa se abbia un Oppo o un Apple, basta conoscere il suo numero e si parla. Gli sms sono interoperabili: si possono mandare a chiunque, qualunque sia la marca del telefono. WhatsApp invece non è interoperabile: posso mandare un messaggio con quell’applicazione solo a un’altra persona che usa quella stessa applicazione. I negozi online nei quali comprare applicazioni per gli smartphone non sono interoperabili: se voglio comprare un’applicazione per l’iPhone devo usare l’App Store e nient’altro. Se uso Google per le videochiamate, anche le persone con le quali voglio parlare devono avere la stessa tecnologia. In questo modo, le grandi piattaforme e le enormi aziende digitali che fanno da punto di entrata su internet, riescono a tenere i loro utenti incollati alle loro tecnologie. È difficilissimo, per esempio, abbandonare WhatsApp e cominciare a usare Signal se tutti gli amici usano la piattaforma acquisita qualche anno fa da Mark Zuckerberg. È un tema di antitrust. Soprattutto, è un tema di libertà di innovazione. Quando gli utenti sono bloccati su una piattaforma, la competizione delle idee nuove viene frenata.

Con il Digital Markets Act, le istituzioni europee intendono modificare alla radice le regole che hanno consentito alle grandi piattaforme digitali di conquistare il loro enorme potere di mercato. Si applica alle società che hanno una capitalizzazione di borsa di almeno 75 miliardi di euro o fatturato di 7,5 miliardi, che offrono una piattaforma fondamentale per la vita in rete - come un browser o un social network - usata da almeno 45 milioni di utenti al mese nell’Unione Europea. Entrerà in vigore, se tutto procede come previsto, tra circa un anno. E imporrà alcune nuove norme antitrust. Tra queste l’obbligo di interoperabilità e il divieto di unire artificialmente i prodotti in pacchetti indissolubili. Apple, Alphabet (Google), Meta (Facebook), sono le aziende più direttamente interessate alla novità. Questa normativa, gemella del Digital Services Act, cambierà profondamente il mercato digitale. Anche per la durezza delle sanzioni: multe fino al 10% del fatturato per la prima condanna, fino 20% per ulteriori condanne e addirittura obbligo di separazione delle compagnie nei casi più gravi. Il dibattito tra le istituzioni europee - la Commissione, il Consiglio, il Parlamento - si sta avviando a conclusione mentre si sta affievolendo la pressione delle lobby delle grandi aziende. È sempre più difficile che il percorso del Digital Markets Act sia fermato.

Ora, quindi, ci si può cominciare a chiedere come queste nuove regole saranno applicate in pratica. Le domande non mancano. Come avverrà il passaggio all’interoperabilità? Per quanto riguarda l’ammissione nel sistema operativo dei telefoni di più di un negozio per le applicazioni, forse basterà una norma. Ma per la messaggistica non sarà così semplice. Non si potrà certo costringere solo le poche grandi aziende ad aprirsi: se WhatsApp deve parlare con Signal e Telegram, anche queste devono parlare con quella. Del resto, anche le videochiamate di Google o Apple dovranno aprirsi alle altre, come Zoom e Streamyard, ma perché questo avvenga non dovranno modificare qualcosa anche le piccole piattaforme? Un’idea alternativa è quella di fondare una dimensione di interoperabilità di livello più astratto di quella che obbliga semplicemente tutte le piattaforme a parlarsi tra loro. Se si andasse in questa direzione, sarebbe probabile tornare a riflettere sul GDPR, che tra l’altro dichiarava che le grandi piattaforme sono obbligate a lasciare che gli utenti si scarichino i loro dati personali e li usino per alimentare piattaforme concorrenti. Seguendo questa impostazione, l’interoperabilità si potrebbe raggiungere creando le condizioni perché il profilo personale di chi è online sia separato dalle piattaforme, diventi un valore delle persone e non delle aziende, sia usato per accedere a tutte le diverse piattaforme e diventi lo hub delle comunicazioni di ciascuno su tutte le piattaforme. Non basterà, certo, ma sarà un inizio promettente. Perché su questa base, le nuove piattaforme innovative potranno nascere e svilupparsi senza dover combattere il lock-in che tiene gli utenti legati alle piattaforme che oggi utilizzano.

Non è un passaggio del tutto immediato, è vero. È chiaro che tra la teoria dell’interoperabilità e la pratica si confronteranno diverse soluzioni alternative. Le grandi piattaforme, per esempio, suggeriranno che aprendo le loro tecnologie metteranno a rischio la sicurezza degli utenti. Non è un argomento del tutto insensato. In un certo senso, l’interoperabilità rende più facile l’attività di cyberterroristi e cybercriminali che vogliano passare con i loro attacchi da una piattaforma all’altra o intendano passare da internet per mettere in difficoltà infrastrutture strategiche, come quelle che riguardano la sanità o la produzione di energia. Ma sta di fatto che, se le grandi aziende tecnologiche sono abili come hanno sempre dimostrato di essere, troveranno una soluzione per questo problema. Sarà bene che comincino a pensarci, per quando l’interoperabilità diventerà un obbligo di legge in Europa. Anche perché se non ci pensassero loro e si presentassero sul mercato altre piattaforme innovative, più rispettose delle regole europee, gli utenti avrebbero la possibilità di cambiare. Insomma, in un sistema complesso come quello dei media digitali, nulla è lineare. Anche le nuove regole, come il Digital Markets Act, dovranno essere pensate in modo da poter essere innovate di fronte alla risposta della realtà. Del resto, c’è una regola in questo genere di questioni e suona più o meno così: «In teoria, la pratica corrisponde alla teoria. In pratica, no».