Ambiente

Soia: non compare in etichetta ma c’è. E deforesta il Pianeta

Solo il 7% finisce nei nostri piatti in una forma riconoscibile. Il resto arriva in tavola in maniera indiretta, attraverso latte e carne di animali nutriti con questa leguminacea asiatica che viene coltivata in maniera intensiva (e spesso illegale) nelle foreste più grandi del mondo. Ora una legge Ue vuole costringere i produttori a certificarne l’origine sostenibile
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28 marzo 2022 Aggiornato alle 07:00

Chiamiamola la guerra della soia. Va avanti da decenni. Ma proprio in questo momento, con il mondo e l’opinione pubblica distratti da altre problematiche, sta attraversando una battaglia decisiva. Che riguarda il futuro dell’ecosistema e, quindi, quello di tutti. Esagerato? Andiamo per ordine, se non altro per capire quanto tutto, nell’era della globalizzazione, sia collegato. Per intuire quanto poco si sa delle rotte lontane e misteriose che segue il cibo per arrivare nel nostro piatto, e ancora meno su chi le stabilisce e chi le dovrebbe monitorare.

Partiamo dalla soia, dunque. Decisamente esotica fino a qualche anno fa, oggi in Italia non è difficile incontrare al supermercato o ritrovarsi in frigo, in una delle sue svariate e colorite forme, questa leguminacea asiatica coltivata in Cina da quasi tremila anni. Dalla salsa per il sushi di JustEat ai germogli per l’insalata, fino al miso, cioè formaggio di latte di soia cagliato, o al tofu, pasta di soia fermentata, che per molti sono anche un duttile sostituto delle proteine animale nella dieta vegetariana o vegana. Cosa c’è di più innocente di questi fagiolini chiari? La soia ad alto contenuto proteico, amica del cuore e nemica del cancro e del colesterolo. La soia che potrebbe guidare perfino gli italiani a consumare meno carni rosse, l’alimento che “costa”, secondo il Water footprint network, il 15% delle emissioni totali di gas serra ed enormi quantità di acqua: secondo un loro citatissimo calcolo ci vorrebbero 15.000 litri d’acqua per “produrre” una bistecca di 300 grammi, contro 600 litri per tre etti di fagioli di soia. È anche per questo che in Italia di soia se ne sta consumando di più, una crescita di circa il 10% l’anno secondo Fieragricola. Bene quindi? Sì e no.

Il problema non è la soia-soia, quella che compriamo e consumiamo come tale. Ma la “soia nascosta”, come la chiamano gli ambientalisti, o anche “indiretta”. Ogni cittadino europeo, in media, consumerebbe ogni anno oltre 61 chili di questo vegetale secondo un report del Wwf. Forse anche di più, oggigiorno. Un sacco di soia. Come è possibile? È possibile perché non siamo noi a mangiarla, ma i polli, maiali, bovini che poi riforniscono i supermercati in forma di carne, affettati, latte e latticini. Leggo sull’etichetta: “carne italiana”. E sono tranquillo. Ma qual è la materia prima sempre più usata per ingrassare questi animali? Sempre più spesso è lui, il fagiolino asiatico, semplice da coltivare, duttile e nutriente: da solo, per gli animali, può costituire una dieta. Lo studio citato sopra dice ancora che solo il 7% della soia importata in Italia finisce nei nostri piatti in una forma “riconoscibile”. Il resto vi arriva “indirettamente”, attraverso carne e latte, o è mimetizzata, e difficile da individuare nelle etichette, come olio, farina o lecitina, in precotti e gelati, biscotti e alimenti per bambini, in dolci e cioccolato, in salumi e pane in cassetta.

È questo enorme flusso sotterraneo a far male al Pianeta; è quello che non vediamo a collegare la soia alla manifestazione più evidente dell’impatto dell’uomo sull’ambiente: la deforestazione. Se infatti, come concordano tutte le analisi, è l’espansione dell’agricoltura il principale “movente” dell’assedio ai principali polmoni verdi rimasti al Pianeta, dal Borneo al Sudamerica, la monocultura della soia sarebbe il primo prodotto per cui i coltivatori stanno facendo spazio abbattendo gli alberi. I numeri? Eccoli qui, li ha messi insieme il Wwf Italia nel Giorno delle Foreste. Dal 1950 all’era attuale la produzione di soia è aumentata di 15 volte a causa dell’aumento del consumo di carni e derivati animali a livello globale. Non c’entra, dunque, la salsa dell’all you can eat: la soia è destinata per l’80% alla produzione di farine, e il 97 % delle farine di soia è destinato ai mangimi. La soia è il secondo peggior nemico delle foreste dopo l’allevamento bovino.

Il Brasile è il maggiore produttore al mondo di soia. E tra i suoi maggiori importatori ci siamo noi, gli europei, secondi acquirenti di soia al mondo dopo la Cina. Ancora, un quinto della soia importata in Ue dal Brasile è legata a deforestazione illegale, prodotta in terreni disboscati dopo il 2008. L’Italia nel 2018 ne ha importate 267.000 tonnellate, per dirottarle, nel 90% dei casi, ai suoi allevamenti avicoli, suini e bovini. Vogliamo essere ancora più precisi? Secondo la società di studi ambientali padovana Etifor il nostro Paese si “mangia” in soia ogni anno 16.000 ettari di foresta sudamericana.

E cosa succede quando una foresta muore? Semplice. Le foreste sono “banche della biodiversità”, innumerevoli specie animali e vegetali vivono solo lì. Le foreste producono umidità, respirando e traspirando come un’unica grande creatura. Frenano la desertificazione, riflettono il sole in modo diverso dalle aree abitate o coltivate, assorbono anidride carbonica, tanto che si pensa che i danni globali creati dalle emissioni inquinanti dell’uomo negli ultimi due secoli sarebbero stati ben peggiori senza di loro. Le foreste svolgono insomma per la Terra il compito che a casa affidiamo al deumidificatore e all’impianto ad aria condizionata. In che misura lo dice, anche qui, uno studio recentissimo. Secondo un’analisi dell’Università di Rio de Janeiro pubblicata sulla rivista scientifica Plos one se la deforestazione amazzonica continuerà a questi ritmi entro il 2050 la temperatura locale potrebbe iniziare ad aumentare a un ritmo di 1,45 °C ogni anno. Un’enormità. Meno foreste, dunque, uguale più surriscaldamento, più deserto, più inondazioni. Eccetera, eccetera.

Qualcosa di importante sta accadendo, però, proprio ora, a Bruxelles. Il 17 marzo il Consiglio dei ministri dell’ambiente dell’Ue ha ufficialmente iniziato la discussione su una legge che vorrebbe eliminare i prodotti legati alla deforestazione dalla “catena di approvvigionamento comunitaria”. «È una grande occasione» commenta Edoardo Nevola, dell’Ufficio foreste di Wwf Italia. «Non si parla più di annunci o progetti: entro l’anno potremmo avere una legge concreta con un approccio innovativo. L’idea è che da adesso dovranno essere i grandi produttori a dimostrare, con un serio tracciamento, con foto satellitari, con ogni mezzo, che i loro campi non impattano illegalmente sulle foreste. Altrimenti la loro soia, il loro cacao o il loro caffè, semplicemente, non potranno più salpare per l’Europa». I prodotti direttamente o indirettamente “pericolosi” non dovranno più arrivare sugli scaffali. Così come, per esempio, alcuni tipi di plastica giudicati per legge nocivi dall’Ue non circolano più e stanno sparendo dalla produzione globale.

Gli ambientalisti, anche se critici su alcuni punti dalla normativa - vorrebbero più prodotti nella lista degli indesiderati, più tutela per le popolazioni locali, tracciamenti ancora più stringenti dei campi coltivati di provenienza - sono ottimisti. «Anche la presidenza di turno francese del consiglio dell’Unione Europea, fino al 30 giugno, ha promesso di rispettare le prossime scadenze del cammino della legge anti-deforestazione: un accordo tra i ministri dell’ambiente sulla normativa entro il 28 giugno e un voto della commissione ambiente del Parlamento di Strasburgo entro l’11 luglio» ricorda Nevola. «Una legge del genere non frenerebbe solo la deforestazione, ma porterebbe anche a un ripensamento dei processi produttivi» aggiunge Martina Borghi, responsabile della Campagna foreste di Greenpeace Italia. «Magari alcune aziende italiane della carne studieranno altri tipi di allevamento, meno intensivi. Magari avranno più spazio le produzioni locali e, nei Paesi produttori, un’agricoltura meno invasiva, meno basata sulle monoculture. Magari anche noi consumatori cambieremo abitudini. Può essere provocatorio dirlo in un momento di crisi, ma la carne, con questi sistemi produttivi industrializzati, forse costava troppo poco. Magari è arrivato il momento, semplicemente, di consumarne meno. E così certi prodotti esotici dettati dalle mode, come l’avocado: ci si chiede mai come l’agricoltura riesce a procurarci un prodotto che, pochi anni fa, veniva richiesto dieci volte meno?».

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