Culture

Emilio Ambasz, il padre dell’architettura green

Un libro raccoglie gli scritti immaginifici che hanno accompagnato i lavori del maestro argentino, precursore degli edifici sostenibili. Il curatore Fulvio Irace: «Presentò al mondo il design italiano»
La Casa de retiro espiritual di Emilio Amabasz a Siviglia.
La Casa de retiro espiritual di Emilio Amabasz a Siviglia.
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
27 marzo 2022 Aggiornato alle 13:00

Fuori Siviglia, al centro di un’area collinare coltivata a grano, si staglia un’architettura umana che sembra il rendering di una fantasia primigenia. È la Casa del ritiro spirituale concepita nel 1975 da Emilio Ambasz, il padre dell’architettura verde.

Compresa tra da due alti muri rivestiti in stucco bianco grezzo a formare un angolo retto, l’opera realizza l’archetipo della sua filosofia radicale, il suo sforzo di «eliminare l’architettura come processo culturalmente condizionato e di tornare alla nozione primordiale di abitazione», per citare le sue parole.

Ora un prezioso volume intitolato Emilio Ambasz. Architettura verde & favole di design (Corraini Edizioni) raccoglie per la prima volta gli scritti di quello che l’architetto Fulvio Irace, docente di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano e curatore del libro, definisce un Esopo argentino.

«È sempre stato diffidente nei confronti delle ideologie storiche – ricorda Irace - mentre la favola, come il mito, possiede un nucleo antropologico immutato, sono domande eterne a cui ogni tempo dà la sua risposta». La favola è per Ambasz è parte del metodo di lavoro. La sua architettura lavora con quelle che lui stesso definisce «le liturgie e le cerimonie della giornata di ventiquattr’ore». Accendere il fuoco, conversare, godere del giardino, «per Ambasz questi rituali segnano la temperatura del nostro stare al mondo», spiega ancora Irace.

Negli anni Settanta insieme a Giancarlo Piretti progetta il sistema di sedute Vertebra, la prima sedia ergonomica da ufficio regolabile in modo automatico, che nel 1981 gli vale il Compasso d’oro assegnato dall’Associazione del disegno industriale, il più importante riconoscimento internazionale del settore. Lo vincerà di nuovo a intervalli di dieci anni nel ‘91 e nel 2001, mentre nel 2020 gli verrà consegnato il Compasso d’oro alla carriera internazionale.

Questa la motivazione espressa dalla giuria del premio: «Precursore del rapporto tra edificio e verde, ha concretizzato veri e propri manifesti “vivi” di una cultura per lo sviluppo sostenibile. Ha esplorato con una poetica non consueta le relazioni tra questo modello culturale e i processi di design, anticipando coraggiosamente questioni oggi di urgente attualità rispetto alla responsabilità produttiva. Grande divulgatore della cultura del progetto di design, ha sostenuto appassionatamente nel mondo la conoscenza del miglior design Made in Italy».

Dal 1969 al 1976 ha ricoperto il ruolo di curatore del Dipartimento d’architettura e design presso il Museum of Modern Art (MoMA) di New York, che oggi ospita l’Ambasz Institute a lui intitolato nel 2020 con l’obiettivo di «rendere visibile l’interazione tra architettura ed ecologia».

Tra i suoi allestimenti si ricorda la mostra Italy - The New Domestic Landscape, che nel 1972 offre una vetrina mondiale a designer come Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Marco Zanuso, Joe Colombo, Gaetano Pesce, Mario Bellini, Alberto Rosselli, Ugo La Pietra. In Italia venne presentata sul supplemento a colori del settimanale L’Espresso con un articolo firmato da Umberto Eco dal titolo Dal cucchiaio alla città, che equivocava in parte il celebre slogan coniato dall’architetto Ernesto Nathan Rogers.

L’importanza dell’esposizione fu epocale. «I radicali come Alessandro Mendini, Superstudio, Archizoom, allora considerati le brigate rosse del design e per questo marginalizzati, entrarono di diritto nell’establishment culturale», ricorda Fulvio Irace. «Quello che era apparso un Paese di esteti in declino entrava nel tempio della modernità e sembrava tenerne la chiave».

L’opera di Ambasz come architetto è spesso riassunta dal motto “green over gray”, che lui stesso sintetizza così: «Dobbiamo concepire un’architettura che simboleggi un patto di riconciliazione tra la natura e il costruire umano, un’architettura che metta il verde al di sopra del grigio». Un principio che ha ispirato vere e proprie cattedrali di vegetazione erette nel cuore della città.

Uno degli esempi più celebri e imitati è la Prefectural International Hall del centro Acros (Asian Cross Road Over the Sea) di Fukoka, in Giappone. Affacciata sul Tenjin Central Park, una scalinata di 14 giardini terrazzati scanditi da vasche e giochi d’acqua ossigena una struttura di circa 100.000 mq con 5.400 mq di vegetazione, che oggi conta 120 varietà per un totale di 50mila piante.

Senza spostarci dall’Italia, invece, a lui si devono l’Environment Park di Torino – firmato con Benedetto Camerana, Giovanni Durbiano e Luca Reinerio –, la Banca degli occhi e l’Ospedale dell’Angelo, entrambi a Mestre, oltre a diversi progetti rimasti su carta come il restyling della sede dell’Eni a Roma, bosco verticale ante litteram concepito nel 1998.

Vent’anni prima, Ambasz aveva ideato il Giardino Pro Memoria, un memoriale mai realizzato che avrebbe dovuto ricordare alle generazioni future gli orrori della guerra. Prevedeva che una serie di lotti separati da siepi venissero assegnati ai bambini della città di Lüdenhausen, in Germania, e che venissero impartite loro le basi del giardinaggio affinché li coltivassero in modo responsabile.

«L’implicita speranza della popolazione», conclude Ambasz nella favola illustrativa del progetto, «è che infine i giardinieri eliminino le siepi che separano gli appezzamenti per creare un unico grande giardino comune». Un messaggio che ancora oggi, come testimonia la cronaca internazionale, ha la necessità di raggiungere i suoi interlocutori. L’unico modo giusto di tradire un’utopia, sembra dirci Ambasz nel corso di tutta la sua carriera, è quello di darle un luogo.