Diritti

Si accendono i riflettori su un conflitto. E si spengono su un altro

Reporter e giornalisti si sono spostati in massa in Ucraina. E l’attenzione mondiale sull’Afghanistan è scomparsa. Così, i talebani hanno di nuovo mano libera per riportare indietro il Paese, chiudendo le scuole secondarie femminili. E affamando la popolazione
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
26 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

Siamo ormai abituati ad affrontare un solo tema per volta e in maniera ossessiva: la pandemia, i talebani in Afghanistan, l’invasione russa in Ucraina.

I media definiscono l’agenda in modo da rispondere (affermano loro) alla domanda del pubblico, che pare non sia in grado di sostenere la complessità e che di conseguenza richieda un avvicendarsi (anziché un affiancarsi, come sarebbe naturale) degli argomenti affrontati. Ecco quindi che, per mesi, sentiamo parlare dei talebani e poi, improvvisamente, non ne sentiamo parlare più.

È forse dovuto al fatto che la loro gestione del territorio è improvvisamente divenuta compliant con gli standard dei Paesi democratici? Assolutamente no (aggiungerei, purtroppo). È invece conseguenza del manifestarsi di una nuova emergenza: appunto l’invasione russa.

Reporter e giornalisti si spostano in massa dall’Afghanistan all’Ucraina o ai Paesi limitrofi, l’attenzione mondiale su quanto avviene all’interno del Paese crolla e i talebani questo lo sanno. È notizia recente che abbiano richiuso le scuole secondarie femminili, distruggendo nuovamente i sogni delle ragazze di età compresa tra i 12 e i 19 anni.

Nel Paese, a fine ottobre 2021, il numero di civili sfollati interni aveva raggiunto le 700.000 unità. Si stima che solo il 5% della popolazione afghana abbia accesso a cibo sufficiente per il proprio sostentamento e che il numero di coloro che soffre di fame acuta abbia raggiunto i 23 milioni. Solo questo inverno, sono circa 14 milioni i bambini che rischiano livelli di insicurezza alimentare, 3,5 milioni di bambini sotto i 5 anni soffriranno di malnutrizione acuta e un milione di bambini rischia di morire di fame o di freddo.

Tutto questo avviene a corredo di un contesto economico di assoluta incertezza: la moneta nazionale è stata svalutata, linflazione è accelerata proprio su beni di primo consumo come cibo, olio da cucina e carburante, il commercio è in declino e la maggior parte dellelettricità importata non riesce a essere pagata. Le conseguenze sono prevedibili, su uneconomia già in declino dal 2020. Stando ai dati UNDP, il PIL del paese, nel prossimo anno, rischia una contrazione che può raggiungere il 30%.

Ne abbiamo parlato con Silvia Redigolo, cuore di Pangea, la Onlus divenuta tristemente famosa proprio lo scorso agosto, con il ritiro dei contingenti internazionali e il nuovo avvento dei talebani. Silvia ci racconta delle attività di Pangea, che opera in Afghanistan dal 2003 con il Progetto Jamila, nellarea urbana di Kabul. Le attività della Onlus si concentrano in particolare in diversi quartieri della periferia, nei quali è stato attivato un circuito di microcredito integrato con altri servizi di tipo educativo e sociale.

Il progetto è stato sempre rivolto a donne estremamente povere, per la maggioranza analfabete e con problemi familiari (vedove, orfane con disabilità, con famiglie estremamente numerose, con mariti malati…) ma fortemente motivate nel voler contribuire alla loro vita e a quella del loro nucleo familiare avviando unattività di microimprenditoria familiare o individuale. Qualche dato? Solo nel 2020, nel pieno della crisi pandemica da Covid, il progetto Jamila ha fornito microcredito a 257 donne e corsi di alfabetizzazione e di calcolo a 547 donne.

Quando nel mondo si manifestano un nuovo conflitto o un nuovo avvenimento che catturano l’attenzione dei media, improvvisamente i riflettori si spengono su tutti gli altri. Smettiamo di parlarne ed è come se non esistessero più. Ma ovviamente non è così.

Quella in Afghanistan non è che una delle emergenze ancora in corso: pensiamo ai conflitti attualmente in essere in Nigeria, in Somalia, in Siria, in Burkina Faso (solo per citarne alcuni: per un’analisi più completa vi rimando al bell’articolo di Chiara Manetti).

Probabilmente sarà un mio personale eccesso di fiducia nei confronti dell’umanità, ma io credo che questo sforzo possiamo almeno tentare di farlo: cogliere la complessità, evitare di polarizzarci inutilmente su posizioni opposte, ragionare su piani diversi, accogliere notizie provenienti da varie parti del mondo e continuare a interessarci di quanto sta avvenendo. Insistere sul concetto di responsabilità individuale, voler avere informazioni evitando di sottostare alla “moda” delle emergenze. Anche questo è essere persone adulte. Anche questo è attivismo.

Azzurra Rinaldi, economista, è Direttrice della School of Gender Economics all’Università Unitelma Sapienza di Roma.