Diritti

Il silenzio di Edward Snowden

Dall’inizio della guerra in Ucraina ha pubblicato un solo tweet. L’informatico americano che nel 2013 rivelò migliaia di documenti segreti della National Security Agency (NSA) ha ottenuto l’asilo politico da Vladimir Putin, e dal 2020 ha un permesso permanente in Russia
Un busto in 3D di Edward Snowden (EPA/AXEL HEIMKEN)
Un busto in 3D di Edward Snowden (EPA/AXEL HEIMKEN)
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24 marzo 2022 Aggiornato alle 07:00

Non twitta più neanche lui, Edward Snowden, l’informatico americano che nel 2013 rivelò migliaia di documenti segreti della National Security Agency (NSA) ai giornalisti del Guardian svelando l’esistenza di un programma di intelligence di sorveglianza di massa in tutto il mondo. La sua denuncia delle violazioni della privacy, della libertà di informazione e reti di intelligence, gli costò una serie di reati da parte degli Stati Uniti, dal furto di proprietà governative allo spionaggio con la conseguente revoca del passaporto a stelle e strisce.

A tendergli la mano proprio lui, Vladimir Putin, che nel 2013 gli offrì il diritto di asilo in Russia – dal 2015 gode dello status di rifugiato politico in Unione Europea. Dopo aver rivelato le informazioni ai giornalisti Glenn Greenwald, Laura Poitras, e Ewen MacAskill, a Hong Kong, Snowden rimase 40 giorni nell’aeroporto di Mosca cercando di “negoziare” un asilo politico, rifiutatogli da 27 Paesi. Ma non da Mosca, dove vive con la moglie e i figli (nati nella capitale russa) da quasi 10 anni e dove nel 2020 ha ottenuto un permesso di residenza permanente.

Prima del 24 febbraio, quando Vladimir Putin ha ordinato alle truppe russe di iniziare l’offensiva in Ucraina, appariva incredulo rispetto alla prospettiva di una invasione di Mosca, screditando proprio i segnali preoccupati dell’intelligence americana. «Questa possibilità è francamente così terribile per me che è difficile persino contemplarla. Ricordo ancora le cicatrici rosse per le strade di Sarajevo, la “Sarajevska ruža” che ricorda le vittime dei colpi di mortaio. Kyiv è più grande di Sarajevo. Di Grozny. Di Falluja. Semplicemente impensabile», twittava il 19 febbraio.

Poi un altro tweet, 8 giorni dopo, 4 dall’inizio della guerra, questa volta a metà tra il sarcastico, il criptico e l’amaro: «Non sono sospeso al soffitto sopra un barile di acido da una corda che brucia un po’ più velocemente ogni volta che twitto, - rivolgendosi direttamente ai leoni da tastiera preoccupati del silenzio di Snowden - ho appena perso la fiducia che avevo che condividere il mio pensiero su questo particolare argomento continua a essere utile, perché mi sono sbagliato». Poi niente, nessuna risposta agli oltre 4.000 commenti e agli altrettanti retweet - nonostante il regolatore Internet russo Roskomnadzor abbia ordinato il 4 marzo il blocco di Facebook e Twitter, dopo qualche giorno quest’ultimo è tornato disponibile attraverso il browser Tor, lanciando una versione che si appoggia ai cosiddetti onion services, ovvero server che permettono di connettersi in modo anonimo e di raggiungere direttamente il sito cercato, superando i blocchi territoriali. Tool che non sembra aver interessato Snowden: durante gli ultimi giorni di attività online, l’informatico aveva addirittura sostenuto che gli allarmi lanciati dal governo Usa nascondevano dei tentativi di deviare la macchina informativa da quel che stava emergendo sulla stampa circa un piano della Cia di raccolta di dati sui cittadini.

Lo stesso ex assistente tecnico dell’agenzia di spionaggio civile del governo federale degli Usa che non aveva usato mezzi termini su una possibile collaborazione con la Russia: «Non ho collaborato con i servizi di intelligence russi, non l’ho fatto e non lo farò. Ho distrutto il mio accesso all’archivio [dell’NSA]. Non avevo materiale con me prima di lasciare Hong Kong, perché sapevo che avrei dovuto attraversare questo complesso percorso multi-giurisdizionale», aveva dichiarato. Chissà cosa penserà in questi giorni Snowden della censura russa, della decisione di trasferire tutti i server e domini nella Intranet russa, la RuNet, lui che è presidente della Freedom of the Press Foundation, l’organizzazione nata per proteggere i giornalisti dagli hacker e dalla sorveglianza del governo. Per ora, nessun nuovo cinguettio.