Diritti

Guerra e pace, cronaca e storia

L’estetica delle nostre scelte, alle volte, è anche il contenuto. In quale prospettiva si possono porre le immagini che scegliamo e mostriamo? Quella della cronaca o quella della storia, quella del dissenso o quella del consenso?
Benedetta Porcaroli in una scena del film  'L’ombra del giorno' di Giuseppe Piccioni, ora al cinema.
Benedetta Porcaroli in una scena del film 'L’ombra del giorno' di Giuseppe Piccioni, ora al cinema.
Cristina Sivieri Tagliabue
Cristina Sivieri Tagliabue direttrice responsabile
Tempo di lettura 6 min lettura
12 marzo 2022 Aggiornato alle 07:38

Sono davanti a un piatto di spaghetti cozze e pecorino in un piccolo bar di zona Prati e di fronte a me c’è il regista del momento: Giuseppe Piccioni. Se state pensando a un film per il week-end non potete perdere L’ombra del giorno. Perché l’ha firmato lui. Perché ha come protagonisti Benedetta Porcaroli e Riccardo Scamarcio. Ma soprattutto perché è un film che parla di consenso e dissenso, e di guerra.

Un gesto artistico - purtroppo - lungimirante il film di Piccioni, uscito nelle sale italiane mentre le bombe distruggono le città ucraine. E questi spaghetti con un autore così importante del cinema italiano mi permettono quindi non solo di parlare di un film, ma di riflettere sulla rappresentazione della guerra, su quello che accade prima, su quello che arriva dopo, e sul mestiere dei narratori. Noi, giornalisti, lui, artista. Che cosa vediamo. Che cosa dobbiamo mostrare. Che cosa dobbiamo filtrare? A che scopo?

Una settimana fa Guido Scorza, componente dell’autorità Garante della protezione dei dati personali, criticava sul nostro quotidiano l’utilizzo delle immagini dei bambini, sia per le onlus che promuovono le raccolte fondi, sia per noi testate giornalistiche che diamo notizie con foto a corredo. E alle volte il contrario. Foto (o video) notizie con testo a corredo. È giusto mostrare volti di bambini di cui non conosciamo il nome e cognome, e di cui i genitori non ci hanno dato il consenso all’utilizzo delle immagini, per raccontare la guerra? Abbiamo deciso di proseguire la nostra ricerca: la nostra giornalista Chiara Manetti ha posto la stessa domanda a fotografi di guerra, in questo momento al fronte, e anche a Oliviero Toscani. Il loro punto di vista è che è indispensabile, invece, giornalisticamente parlando, non censurare nulla. Perché ogni fotografia è il racconto di ciò che accade. E il racconto del dolore - laddove le immagini non siano troppo violente - non può e non deve essere filtrato, perché è una testimonianza.

Come si può raccontare quello che succede e nello stesso tempo rispettare i diritti dei bambini le cui immagini raccontano quello che succede?

Occorre concentrarsi sull’obiettivo. Chi parla di guerra deve immaginare la pace che la seguirà. Chi parla di cronaca deve immaginare la storia che ne emergerà. Chi parla di diritti deve bilanciarne diversi: espressione, privacy, cronaca. È ormai una visione ingenua quella di chi ritiene che basti mostrare un’immagine per dare a chi la guarda lo strumento per comprendere: sappiamo che un’immagine di bambini che soffrono emoziona sopra ogni cosa e conduce ad abbandonare il senso critico per soffrire con lui e accettare un’interpretazione dei fatti priva di contraddittorio. D’altra parte, è limitativo censurare un’immagine soltanto per non infrangere una legge: una frase del film di Giuseppe Piccioni è un invito alla libertà di pensiero: “disobbedire a una legge sbagliata alle volte è un obbligo”.

Dobbiamo usare le immagini per informare la ragione non per attivare la mera emozione; per indurre a pensare liberamente, non per manipolare le coscienze; per raccontare la verità senza aggiungere altro male a innocenti che stanno pagando questi terribili anni come nessun’altra generazione recente: la soluzione editoriale ci deve essere. È un’innovazione necessaria che dobbiamo creare.

Come fare? La mia ricerca è in corso. Ma l’intento è arrivare a una soluzione proporzionata.

Il rispetto per i bambini e la loro immagine vorrebbe che non utilizzassimo i loro volti, ma, in un contesto come quello ucraino, in realtà, i volti dei bambini diventano un universo di significati e significanti, e assumono l’aspetto non solo di un singolo bambino. Diventano significativi di un momento storico, oltre che di se stessi: di un dolore, di un conflitto, di una follia. Se trovo ingiusto mostrare i loro piccoli corpi colpiti dalla tragedia trovo invece sensato mostrare la loro vita devastata dalla guerra, i loro occhi sgomenti, la loro tristezza infinita, il loro spaesamento che è anche il nostro. La loro è l’immagine di un futuro che avrebbe potuto essere ma che non è.

Ma non solo. È proprio grazie alla fotografia che possiamo conoscere la verità e distinguerla dalla propaganda. Una foto, se non manipolata, non mente. E si capisce quando una foto è manipolata. Se non fossero state pubblicate le foto di Marianna Podgurskaya, influencer incinta che scappava dall’ospedale di Mariupol, come avremmo saputo che le notizie che volevano che l’ospedale colpito dalle bombe in realtà fosse stato evacuato da giorni fossero fake news? Se i fotografi non avessero scattato foto di madri con i loro bimbi come avremmo saputo che in realtà nell’ospedale c’erano ancora pazienti? Quelle foto sono da pubblicare. I bambini senza nome, mostrati come pubblicità per raccogliere denari e fondi, è una cosa. I bambini senza nome mostrati per raccontare un fatto doloroso è tutta un’altra storia.

E dunque, ancora una volta, come fare?

Penso che l’innovazione sia nella modalità di presentazione di queste immagini. Le foto non dovrebbero essere usate per attrarre l’attenzione, ma andrebbero pubblicate come documenti necessari all’approfondimento. Non vanno messe in testa agli articoli per portare traffico ai giornali, ma raccolte in dossier di analisi, con i volti dei bambini pixellati, in dimensioni ridotte perché non possano essere usate per scopi malevoli, ma solo per comprendere la situazione.

L’estetica delle nostre scelte, alle volte, è anche il contenuto.

Giuseppe Piccioni dice che si sente più sicuro in un mondo in cui c’è chi pensa diversamente da lui. È meglio il dissenso che il consenso. Nel contesto del fascismo questa convinzione è facilmente comprensibile. Tutto il suo film parla di questo. Suggerisce la possibilità di dissentire laddove un governo - per esempio - approva un intervento armato in un Paese come l’Ucraina senza un dibattito pubblico. E anche questo è facilmente accettabile, almeno per chi sta al sicuro in un Paese democratico. Ma anche da questa parte della barricata occorre coltivare il pensiero critico. “Ormai - spiega il regista - siamo in un Paese prima governato dai giudici, da Tangentopoli in poi, e poi dai medici, e dai tecnici, oggi. La classe politica non ha spessore, e Giulio Andreotti in confronto a chi c’è oggi era un gigante, seppure politicamente una controparte”.

Ma come si persegue un salto di qualità? Non alimentando emozioni che non fanno che creare consenso intorno a qualche emergenza. Pensando alla pace che deve seguire le guerre, alla società che ricostruisce dopo le tragedie.

L’ombra del giorno è anche oggi, è anche ora. Piccioni, nella sua abitazione, ha almeno 5 copie differenti di Guerra e Pace. E la guerra e la pace è anche nelle decisioni che prendiamo, piccole o grandi che siano. Stiamo cercando di portare luce in una situazione geopolitica cupa, e non possiamo far finta di nulla. La cronaca prima o poi diventa storia. E se chi racconta la cronaca se ne rende conto troverà le innovazioni necessarie per bilanciare i diritti e aprire una strada per conoscenza di come stanno le cose.

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