Diritti

Un miliardo di dollari di aiuti per l’Afghanistan

È la cifra stanziata dalla Banca Mondiale: il denaro andrà direttamente alle agenzie delle Nazioni Unite e alle Ong internazionali, bypassando i talebani che governano il Paese. Obiettivo: aiutare 24 milioni di persone che hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
4 marzo 2022 Aggiornato alle 11:00

A poco più di 6 mesi da quando i talebani hanno preso il potere in Afghanistan, il Paese è sull’orlo del fallimento. L’economia ha subito un duro contraccolpo, secondo l’Unicef più di 24 milioni di persone - più della metà della popolazione - hanno bisogno di urgente assistenza umanitaria e per il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, l’Afghanistan è “appeso a un filo”.

In questo scenario, il consiglio di amministrazione della Banca Mondiale ha approvato un piano per utilizzare più di 1 miliardo di dollari da un fondo fiduciario afgano, rimasto finora congelato, per finanziare programmi di istruzione, agricoltura, salute e aiuti per le famiglie sotto forma di sovvenzioni eseguite dai beneficiari delle Nazioni Unite selezionate e dalle Ong internazionali. Tutto rimarrà fuori dal controllo dell’amministrazione talebana a interim.

L’Afghanistan Reconstruction Trust Fund, questo il nome del fondo, era stato bloccato ad agosto, quando il gruppo terroristico aveva invaso la capitale Kabul dopo la partenza delle truppe internazionali guidate dagli Stati Uniti, il 15 agosto 2021. L’idea è di aggirare le autorità talebane mettendo a disposizione il denaro attraverso l’agenzia delle Nazioni Unite e i gruppi di aiuto internazionali, fornendo un importante impulso agli sforzi in atto per tentare di alleviare gli effetti della crisi umanitaria ed economica che ha colpito il Paese. La Banca mondiale ha dichiarato che il loro approccio «mira a sostenere la fornitura di servizi di base essenziali, proteggere gli afgani vulnerabili, aiutare a preservare il capitale umano e i principali servizi economici e sociali e ridurre la necessità di assistenza umanitaria in futuro».

Il primo passo spetterà ai donatori del fondo Afghanistan Reconstruction Trust, che dovranno decidere tra 4 progetti del valore di circa 600 milioni di dollari che sosterranno “bisogni urgenti nei settori dell’istruzione, della salute e dell’agricoltura, nonché dei mezzi di sussistenza della comunità”. Verrà data particolare attenzione al garantire che “le ragazze e le donne partecipino e traggano vantaggio dal sostegno”.

Con l’arrivo dei talebani anche le conquiste delle donne degli ultimi due decenni hanno subito un duro contraccolpo: il divieto di lavorare e l’obbligo di viaggiare solo se accompagnate da un parente stretto di sesso maschile ne sono la dimostrazione. Alla maggior parte delle ragazze dalla seconda media in su, poi, è stato impedito di andare a scuola, e questo ha suscitato il timore che questa condizione avrebbe riguardato tutte le donne, come accadde durante il primo governo talebano, dal 1996 al 2001. Ma il gruppo terroristico ha affermato che sarà permesso loro di tornare in classe entro la fine del mese. Abdul Baqi Haqqani, il ministro dell’Istruzione nominato dai talebani, aveva dichiarato che tutte le università pubbliche, compresa quella di Kabul, avrebbero riaperto per uomini e donne il 26 febbraio. E così è stato, ma come riporta Al Jazeera il gruppo terroristico ha consentito solo classi segregate e secondo un curriculum islamico.

Proprio oggi Deborah Lyons, capo della missione di assistenza Onu per l’Afghanistan, ha dichiarato che, nonostante persista la sfiducia della comunità internazionale nei confronti dei talebani, «non si può pensare di aiutare veramente il popolo afghano senza lavorare con le autorità de facto». Davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la rappresentante Onu ha spiegato di aver trasmesso al governo talebano le preoccupazioni della comunità internazionale in merito alle restrizioni dei diritti umani di donne e ragazze, alle esecuzioni extragiudiziali, alle sparizioni forzate e alle detenzioni arbitrarie, al rispetto delle minoranze e alla libertà di riunione e di espressione.

Intanto, sull’agenzia France Press arriva la storia di una famiglia fuggita dal conflitto in Afghanistan che pensava di trovare salvezza in Ucraina: Ajmal Rahmani e la sua famiglia sono dovuti scappare di nuovo, questa volta in Polonia, al suono delle bombe russe. Con lui sua figlia Marwa, 7 anni, la moglie Mina e l’undicenne Omar: lui ha lavorato per 18 anni per la Nato, all’aeroporto di Kabul, e aveva lasciato il Paese quattro mesi prima del ritiro degli Stati Uniti perché aveva ricevuto minacce ed era spaventato. E quando la Russia ha invaso l’Ucraina, Rahmani ha dovuto lasciare tutto, ancora una volta, e percorrere i 1110 chilometri fino al confine.

Questo è quello che succede a chi passa la vita a scappare dai conflitti innescati da altri.

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