Ambiente

Le oscure implicazioni del greenwashing

Il fenomeno, in crescita, della pubblicità ingannevole dal punto di vista ambientale non è solo una brutta condotta, ma anche l’area di incidenza di un probabile interesse illecito. Che va eradicato a cominciare da come e da cosa si comunica
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3 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

L’ordinanza cautelare del Tribunale di Gorizia del 25 novembre 2021 ha inibito la diffusione di una pubblicità che, sotto il profilo della tutela ambientale, è stata ritenuta ingannevole. L’ordinanza offre l’occasione per riflettere sul rapporto tra la “narrazione” della sostenibilità e gli effetti indiretti che può produrre, complice il fiume di denaro del PNRR che scorre nella Missione 2 “Rivoluzione verde e transizione ecologica”. La mole di risorse, infatti, sollecita gli appetiti più vari.

Nell’ormai noto caso concreto, a un produttore di tessuti per il settore automobilistico è stata contestata la pubblicità ingannevole perché i benefici ambientali veicolati non erano stati dimostrati. Un’induzione in errore dei consumatori, ingannati con il greenwashing. La pubblicità, infatti, non chiariva come, rispetto ad altre, la produzione potesse essere meno impattante sull’ambiente e calcolava in modo sbagliato la CO2 risparmiata utilizzando in parte materiali riciclati. Pertanto, il Tribunale di Gorizia ha accolto il ricorso presentato ex articolo 700 C.p.c. e ha, tra l’altro, inibito la diffusione dei messaggi pubblicitari ingannevoli.

Il Tribunale, muovendo dalla tutela del consumatore consacrata dal Trattato sul funzionamento della Ue (artt. 12 e 169) e dalla Costituzione Ue (art. 38), approda al Dlgs 145/2007 sulla pubblicità ingannevole e da qui trae “l’effetto aggancio” sul consumatore di un messaggio promozionale “idoneo ad alterare apprezzabilmente le decisioni commerciali dei consumatori cui è rivolto, facendogli assumere un comportamento che, altrimenti non avrebbe tenuto, o avrebbe assunto con contorni diversi”.

In altri termini, si tratta di una pubblicità ingannevole se il fascino del concetto veicolato non consente al consumatore di formarsi una rappresentazione completa della realtà.

Il Giudice di Gorizia pone a fondamento della sua decisione anche il Codice di autodisciplina della Comunicazione Commerciale. Un pilastro dell’ormai affollato mondo della soft law il quale, pur non vincolante per il Giudice (che applica la legge e non qualcosa che le somiglia) è però tassativo per le parti che lo riconoscono (28 enti del mondo pubblicitario italiano che rappresentano circa l’80% degli investimenti nel settore).

Il Codice, formulato nel 1966, ha istituito un Giurì e un Comitato di controllo che hanno sviluppato una loro prassi decisoria e che il Giudice di Gorizia ha ritenuto condivisibile. Non solo, dal 2014, nel Codice è stato inserito l’art. 12 dedicato alla “Tutela dell’ambiente naturale” secondo il quale “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. L’art. 6 pone sull’inserzionista l’onere della relativa prova.

L’inibitoria disposta dal Tribunale di Gorizia accende un faro sul nuovo fattore di rischio che può infiltrarsi nelle nostre economie e sul quale non si riflette debitamente; si tratta dell’attrazione di capitali e investimenti indotta dalle pratiche di greenwashing in un’ottica di presunta sostenibilità. Un’attrazione sulla quale si concentrano gli sforzi investigativi delle Autorità preposte per arginare l’illiceità dei profitti derivanti dai reati ambientali, che sono i “reati mezzo” per raggiungere quegli illeciti profitti.

Infatti, ferma restando la necessità di una visione sostenibile della produzione e del consumo, con il greenwashing i parametri di ESG (Environmental, Social and Corporate Government) delle dichiarazioni non finanziarie (di cui al Dlgs 254/2016), rischiano di essere gonfiati per attrarre gli investimenti e massimizzare il profitto.

Per questo il greenwashing non è solo il brutto nome di una brutta condotta ma è anche l’area di incidenza di un più che possibile interesse illecito, da eradicare a cominciare da come e da cosa si comunica.

*Paola Ficco, giurista ambientale e avvocato a Roma, è direttore responsabile di Rifiuti – Bollettino di informazione normativa (Edizioni Ambiente), e consulente Commissione bicamerale di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.

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